Omissis-ArchivioLa Dynasty di Catanzaro

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PonteCatanzaro

C’è chi dice che Catanzaro sia una città che odia il mare. Se lo avesse davvero amato, raccontano, oggi si ritroverebbe con un porto adeguato al rango di un capoluogo di regione. C’è un riparo più o meno turistico al Lido, ma siamo ancora distanti da qualità e dimensioni di un’infrastruttura che è superfluo definire strategica e vitale. L’ignaro osservatore non afferra subito questa particolarità: eppure, nonostante sia in alto, Catanzaro ha il privilegio di potersi girare indifferentemente a destra e a sinistra continuando a vedere acqua di mare, a cullarsi nel discreto abbraccio a distanza dello Ionio e del Tirreno. Avranno avuto le loro buone ragioni, i catanzaresi, a non pretendere che un porto vero si facesse. Sempre lo stesso ignaro osservatore, che pure non avrà fatto caso ad una miriade di altre caratteristiche, si accorge del tratto che fa di Catanzaro una specie di piccola Roma. Come la capitale d’Italia anche il capoluogo calabrese si regge sulla prevalenza del sistema pubblico: è quella l’impronta economica dominante, con tutto quel che ne consegue in termini di vitalità sociale, culturale, politica. La città vive di uffici, ispettorati, sedi istituzionali di servizi sociali, delle aziende sanitarie ed ospedaliere, delle consulte di questo e quello, dei mille rami e sotto-rami del pubblico impiego, della magistratura ordinaria, contabile, militare. Presenze antiche nel comprensorio, il famoso scippo del blasone in danno di Reggio Calabria c’entra poco: già a fine 800 Catanzaro aveva un’invidiabile concentrazione di uffici pubblici. Anzi, secondo recenti studi storici, è esattamente questa consolidata ed ultradecennale presenza ad averle consentito di spuntarla sull’ex capoluogo. Ma questa è un’altra storia. Comune, Provincia e Regione, al netto del consiglio regionale che è ancora in riva allo stretto, fanno la parte del leone. E non è affatto una parte secondaria, legata com’è la vita dei suoi abitanti agli umori di quelle tre istituzioni. C’è poi tutto quanto possa caratterizzare un centro del sud che conta suppergiù centomila abitanti: con i suoi guai, i suoi problemi, le sue contraddizioni, le sue capacità, i suoi dolori e le sue gioie. In una parola, la sua gente. Più di ogni altra cosa, oltre analoghi contesti meridionali, a Catanzaro conta la famiglia. Non parliamo di una ridotta del cattolicesimo integrale: per famiglia s’intende, qui, il dominio di gruppi consanguinei sul resto della città. Non conta chi vince le elezioni, ancor meno il colore delle varie appartenenze. Conta esser sempre lì, muovere i fili, ricavarsi lo spazio necessario perché tutto cambi affinché rimanga tutto uguale. Nulla di illecito, nulla che lasci aperta la porta ai soliti sospetti. Ma sicuramente un fatto dal quale è impossibile prescindere quando -e se- vuoi parlare della capitale della Calabria.
Chi comanda a Catanzaro? E, soprattutto, perché? Sono tre le famiglie portanti, l’architrave che regge le volte del potere. Parliamo degli Speziali, degli Abramo e dei Noto. Monarchie articolate e pezzi di economia sottoposti al controllo delle varie generazioni che si sono succedute. Un’economia che non ha bisogno della politica, una politica che ha invece bisogno dell’economia e tutte e due che si baciano ed abbracciano all’occorrenza. Attorno a loro orbitano altre costellazioni, anch’esse a vocazione familiare. I Gatto, i Mancuso, gli Albano, i Pittelli, i Procopio. Accanto a questi, in un’ideale gerarchia, ne seguono ancora altri: il gioco della intercambiabilità, seppur a tratti caratterizzata dal conflitto interno, è la regola. L’eccezione, quando c’è, fa presto a diventare essa stessa norma non scritta. Cemento, grande distribuzione, cartiere. Con relativi corollari finanziari. E una spruzzatina di politica, a seconda dei tempi e delle persone: come nei casi di Speziale padre e figlio, o degli Abramo. I Noto, salvo una lontana parentesi, si tengono a distanza dall’impegno diretto. Capitali enormi che scandiscono i tempi di una città. Spesso di un’intera regione. Soldi che non sempre -così raccontano- ricadono là dove batte il cuore degli abitanti: basti pensare alla vicenda del “Catanzaro Calcio”, ai suoi tragici destini, e si afferra al volo il senso della diceria. Solo nella catena dei supermercati “Sidis”, tra indotto e dipendenza diretta, la famiglia Noto “controlla” tantissimi lavoratori. Una multinazionale come Auchan certo non tratta con supermarket di periferia, tanto per farsi un’idea. 
Dalla “Cal.Me.spa” degli Speziale (società madre del gruppo, core business calcestruzzo e cemento) ne dipendono poi numerosi altri, con relative propaggini negli ambienti della politica e dei trasporti. Si aggiungano gli ulteriori dipendenti delle cartiere Abramo (fornitori storici della quasi totalità degli uffici pubblici di tutta la Calabria), si moltiplichi la somma per almeno cinque, o anche per quattro, e si raggiungeranno cifre impegnative. Migliaia di persone direttamente impegnate nelle attività economiche di sole tre famiglie. C’è poco da spiegare. La potenza economica di queste famiglie si rinnova poi per un banale, quanto fruttuoso automatismo: soldi a valanga significa cemento e mattone; quindi edifici, quindi affitto dei locali. Un vortice continuo di soldi che attirano altri soldi. Catanzaro non ha un piano regolatore nuovo, la commissione urbanistica comunale è appannaggio, da un numero indefinito di anni, di Domenico Tallini (oggi assessore regionale al personale, molto ben voluto negli ambienti popolari cittadini, sostanzialmente uomo della destra sociale pur avendo vissuto una parentesi nel centrosinistra); non ha la cittadella giudiziaria (quella in costruzione è una storia a sé, legata al senso di questo reportage); gran parte dei palazzi che ospitano le sedi degli assessorati, della presidenza della giunta regionale, degli uffici sanitari, finanziari, statali etc. sono in strutture di loro proprietà. Del tutto legalmente, va ribadito: se qualcosa non dovesse tornare non è certo responsabilità di chi possiede. Semmai è di chi consente che si possegga per quei fini e si associa al vento in poppa in quel dato momento storico. In una parola della politica. Come vedremo prossimamente.(1-continua)
Peppe Rinaldi dal quotidiano “Calabria Ora”


Peppe Rinaldi

Giornalista

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