Le grandi feste dell’Occidente, il Natale e la Pasqua, traggono la loro origine dal fatto religioso del Cristianesimo, la nascita “secondo la carne” di Cristo e la sua passione, morte e resurrezione. La loro riduzione a ricorrenze civili in virtù della spinta sempre più potente verso la secolarizzazione ne ha eliso la matrice originaria al punto che iniziano ad essere designate con terminologie che ne cancellano anche l’eco religiosa. “Una festa senza festeggiato”, secondo una formulazione ad effetto. Tuttavia, la tradizione gastronomica si rivela in queste occasioni più tenace di quella religiosa, associando la festa al consumo di carne di agnello o capretto, specie nel contesto mediterraneo. Un’associazione che anche sul piano delle più recenti acquisizioni teologiche si rivela quanto mai impropria. È pur vero che il sacrificio animale è presente in tutti i culti pagani e nell’ebraismo, che del sacrificio dell’agnello pasquale, nella haggadah, fa memoria dell’agire salvifico di Dio a riscatto degli Ebrei dalla schiavitù dell’Egitto. Altra cosa è calare la Pasqua cristiana semplicemente nella cornice cerimoniale ebraica.
Se sostituzione vi è stata – nel senso proprio della teologia della sostituzione – questa è consistita proprio nella sostituzione che Cristo ha fatto di se stesso come vittima immolata in luogo dell’agnello. Donde, l’equazione, proclamata nel Vangelo di Giovanni sin dalle prime battute (1.29), nel presentare Gesù come “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”.
La sostituzione si compie appieno nell’Ultima Cena quando, instituendo il sacramento eucaristico, Cristo offre la sua carne e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino ordinando la perpetuazione del suo memoriale. Si replicherà che questo avviene nell’ambito della cena ebraica pasquale che imponeva il sacrificio degli agnelli secondo le prescrizioni mosaiche.
Anche questa obiezione appare oggi destituita di fondamento e il suo demolitore è, addirittura, un papa, Benedetto XVI. Questi, nell’omelia della messa in Coena Domini del giovedì santo 2007 – in un documento di magistero ordinario e non da studioso – così commenta l’azione di Cristo e il contesto in cui si svolge: “Gesù ha realmente sparso il suo sangue alla vigilia della Pasqua nell’ora dell’immolazione degli agnelli. Egli però ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli probabilmente secondo il calendario di Qumran, quindi almeno un giorno prima – l’ha celebrata senza agnello, come la comunità di Qumran, che non riconosceva il tempio di Erode ed era in attesa del nuovo tempio. Gesù dunque ha celebrato la Pasqua senza agnello – no, non senza agnello: in luogo dell’agnello ha donato se stesso, il suo corpo e il suo sangue. Così ha anticipato la sua morte in modo coerente con la sua parola: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso» (Gv 10,18). Nel momento in cui porgeva ai discepoli il suo corpo e il suo sangue, Egli dava reale compimento a questa affermazione. Ha offerto Egli stesso la sua vita. Solo così l’antica Pasqua otteneva il suo vero senso”.
Tutta la questione è legata alla differenza di calendario offerta dai Vangeli sinottici rispetto al testo giovanneo che anticipa la Passione di Cristo e la fa coincidere con il momento in cui nel tempio si immolavano gli agnelli. Una mattanza cui è di riscontro la mattanza di Cristo sulla Croce e non nel senso di un’interpretazione spirituale, come generalmente creduto, ma nel senso di una precisa coincidenza cronologica. Sorprende però l’affermazione netta per cui “Gesù ha celebrato la Pasqua senza agnello”. Dunque, Gesù non ha mangiato carne di agnello, e ciò secondo il rituale degli Esseni di Qumran, comunità religiosa di tipo ascetico-monastico dell’ebraismo di quei tempi, gli echi della cui regola si ritrovano in molti luoghi del Vangelo di Giovanni e dell’Apocalisse.
Dunque, è falsa l’equazione che fa della mattanza di agnelli e capretti la ricetta essenziale per festeggiare degnamente le grandi solennità cristiane del Natale e della Pasqua pur nella loro riduzione secolarizzata.
Già nell’antichità pagana si ritrova tutto un filone letterario e filosofico contrario alla mattanza di animali e al consumo di carne. Lucrezio, Virgilio, Plutarco sono autori fin troppo noti anche per un loro ascetismo mediato da istanze di tipo filosofico-religiose, accomunanti chi dal ripudio del sacrificio animale, chi dal rigetto del consumo di carni animali (Sarkophagìa, “Il mangiar carne” è il titolo di uno scritto di Plutarco).
Pochi tuttavia potrebbero pensare che persino il gaudente Ovidio, il brillante autore dell’Ars amatoria, il libertino mandato in esilio dall’imperatore Augusto per la sua supposta licenziosità, scriva a favore del divieto di mangiare carne. E lo fa nel suo capolavoro, nell’ultimo libro delle Metamorfosi, a chiusa di un fantasmagorico poema di trasformazioni surreali di uomini e semidei in esseri vegetali o animali.
Nel XV libro inscena un lungo discorso di Pitagora sul rispetto dovuto agli animali seppure in nome della metempsicosi, della reincarnazione professata dai pitagorici e oggi dai buddisti in varie declinazioni. Un verso (88), più di ogni altro, è potente nella sua icasticità: “heu quantum scelus est in viscere viscera condi”, ovvero “che crimine è seppellire viscere in viscere!”. E a ben vedere questo è l’esito finale del mangiare carne, il seppellire materia morta in materia destinata a morire. Con l’ulteriore aggravio delle acquisizioni più recenti della scienza medica che mette in guardia dall’uso eccessivo di proteine animali in ordine a malattie del metabolismo e alle stesse neoplasie tumorali specie del retto colon, ricordato – non a caso – da Ovidio.
La teologia cattolica ha sempre ritenuto che in altre religioni potessero essere presenti “semi di verità”. Anche il paganesimo a suo modo ha rivelato in alcuni suoi protagonisti una sensibilità naturaliter christiana. Tanto più i cristiani dovrebbero oggi rileggere il senso di alcune tradizioni che sembrano connesse al fatto religioso, ma lo sono solo a livello di immagini superate da un significato che le trascende nel loro “vero senso”. Così è per l’agnello o il capretto la cui mattanza natalizia o pasquale non è giustificata dall’immagine dell’Agnello di Dio, che ancora nella visione dell’Apocalisse appare nel mezzo di quattro esseri viventi e di ventiquattro vegliardi “ritto in piedi come scannato” in un sacrificio di redenzione che ha trasceso e superato l’idea stessa di ogni mattanza animale.
*Foto1_ Ultima cena di Duccio di Buoninsegna