La drammatica storia di Michela Gatta, vittima di violenza domestica: il gip diede ordine al marito di non avvicinarsi a meno di 200 metri ma il sottufficiale incaricato gli consenti’ di restare in garage. Un inferno che continua ancora oggi, tra burocrazia, politica e il business dell’accoglienza. Lo strano intervento notturno di due poliziotti di Battipaglia.
Se quel giorno il carabiniere avesse eseguito l’ordine del giudice a quest’ora, forse, racconteremmo un’altra storia. Invece raccontiamo quella di una donna che oggi, dopo anni di violenze e soprusi del marito, neppure sa come vivere, dove mangiare, cosa fare della sua vita. Il tipico fenomeno all’italiana con ruoli capovolti, il “cattivo” al sicuro e il “buono” alla mercé di tutto e di tutti: lei in strada, di fatto, e lui in casa.
Parliamo della signora Michela Gatta, 52 anni, originaria di Pontecagnano Faiano ma residente (si fa per dire) a Fiocche di Eboli, area a forte vocazione agricola nella Piana del Sele. Come tante altre ha subìto abusi, violenze fisiche e mentali, persecuzioni dall’uomo che anni fa aveva sposato, ma quando i magistrati hanno posto un primo “rimedio” a questa innegabile tragedia, ordinando che il violento non dovesse avvicinarsi a meno di 200 metri da lei, ecco che il sottufficiale incaricato di dare esecuzione alla decisione consente all’uomo di starsene in garage. Risultato? Appena il lampeggiante dell’auto dei carabinieri sfuma nel buio, lui sale in casa e la gonfia di botte nuovamente. Da quel momento la tragedia si moltiplica, degenerando sotto ogni profilo ed incrociando, poi, altri meccanismi perversi: la rapacità di alcune associazioni anti violenza, la banale ridondanza della politica, l’insensibilità di grandi e piccole burocrazie.
Oggi Michela vive -diciamo- in una stanza di un B&B a Battipaglia, senza vitto, senza lavoro, senza nulla, dopo aver girato altre strutture della Campania. E siccome questa permanenza non la paga nessuno, a dispetto dei soliti impegni pubblici presi da questo e quello (sindaci, assessori, assistenti sociali) qualcuno penso bene di mandarle pure due poliziotti che, chissà perché, cominciarono a farle domande: esibisca i documenti, cosa fa lei qui, come mai non paga l’affitto, eccetera. Un disastro nel disastro insomma, oggi -verosimilmente- all’attenzione di qualche organo superiore perché Michela, armata di lingua tagliente e decisa a non sottomettersi più a nessuna prevaricazione, coadiuvata da un avvocato che a volte va anche oltre la mera assistenza legale, Vincenzo Martucciello, ha denunciato lo strano blitz notturno della pattuglia del commissariato di Battipaglia. Vedremo cosa ne verrà fuori. Se verrà.
Era il giugno dell’anno scorso quando i carabinieri di Santa Cecilia dovettero intervenire in quella casa in contrada Fiocche, isolata e, pertanto, habitat ideale per chi abbia in mente di far qualcosa fuori dalle regole: prima che un vicino ti senta, se e quando vi sia, ne passa. E così andava avanti la vita in casa, dopo i primi anni di normale convivenza. Poi qualcosa va storta, la mente dell’uomo sembra scoppiare, Michela racconta nelle sue denunce (dopo riscontrate dagli inquirenti) di consumo smodato di alcool e stupefacenti da parte dell’uomo, di professione bracciante e custode di un’azienda agricola. “Puttana, devo ammazzarti” le urlò un giorno dal balcone di casa, fascia nei capelli alla Rambo e due grossi coltelli infilati nella cintola. E pensare che erano pure tornati insieme dopo un periodo di separazione in cui lui sembrava pentito e deciso a ricominciare. Il 24 giugno 2016 scoppia il finimondo.
Racconta Michela ai carabinieri che lui, ubriaco fradicio e in preda ai fumi dell’hashish, prende un’ascia e un coltellaccio da cucina, deciso a “farle fare la moglie”, pretendendo cioè che acconsentisse a rapporti sessuali. Michela si chiude in bagno ma, quasi come il Jack Nicholson in Shining, lui riesce a sfondare la porta e…il resto possiamo solo immaginarlo. Botte, sangue, violenza, improperi irripetibili, corsa in ospedale, referti medici, perizie. Fino alle 4 del mattino è un inferno, poi lui si distrae e si addormenta e Michela chiama aiuto con un cellulare. La faccenda diventa così materia di carta bollata, tra denunce, verbali, testimonianze, etc. Ma quando, dopo tre mesi, arriva l’ordine del gip Maria Zambrano, richiesto dal pm Elena Guarino, la faccenda si aggroviglia in un misterioso gioco di ammiccamenti, omissioni, superficialità. Il maresciallo che comandava la stazione che aveva in carico il caso, consente al marito di starsene a pochi metri, in garage. Possibile? Possibilissimo, invero accade anche di peggio a volte. Il carabiniere è stato poi trasferito per una serie di impicci, tra cui, probabilmente, anche questo: ma dell’indagine su di lui e sul perché non abbia eseguito l’ordinanza giudiziaria non si hanno notizie precise, almeno non ancora.
Da questo momento la situazione precipita, e dinanzi alla donna si spalanca l’abisso dell’indigenza. Portata in una casa famiglia in provincia di Caserta, dopo un paio di mesi chiede di tornare nella sua terra: non ha figli, e ciò è un vantaggio in queste tragedie, ma star lontana, senza un soldo, senza un lavoro, senza nulla, non è esattamente il massimo. I servizi sociali del comune di Eboli le propongono un posto in un centro di riabilitazione psichiatrica di Acerno, lo stesso che poco tempo prima era stato investito da un ciclone giudiziario con arresti e indagati per maltrattamenti ai degenti. Normale che Michela rifiutasse chiedendo a gran voce un’altra sistemazione. Il comune di Eboli, dopo averla portata come un trofeo il giorno dell’inaugurazione del locale centro anti violenza alla presenza dell’assessore regionale al ramo, che conosceva un po’ il caso (la Regione doveva mandare i soldi, cosa che poi ha fatto, il punto è che il grosso finora sembrerebbe essere stato speso per pagare i collaboratori), letteralmente la molla.
Michela non è una donna remissiva ed intimorita, le alterne vicende della sua vita hanno ispessito la durezza di un carattere di per se’ coriaceo, lotta come una leonessa per fare e farsi giustizia: dinanzi agli “specialisti” che trattavano il suo caso, lei rintuzzava punto per punto, faceva resistenza all’inserimento in un programma apparentemente buono più per giustificare gli emolumenti ad una pletora di professionisti (assistenti sociali, psicologi, mediatori, avvocati, etc) che non a risolvere almeno il suo problema. “Non mi serve lo psichiatra, ho solo bisogno di una mano per ricominciare una vita autonoma: non ho un euro, vivo di elemosine e buon cuore di pochi. Se l’apparato politico/burocratico guidato oggi dal sindaco “nastrino” (Massimo Cariello, ndr) pensa di scaricarmi come un ferro vecchio si sbaglia di grosso”.
C’è da crederle a giudicare dalla determinazione che la contraddistingue e che, magari, un giorno potrà anche servire da esempio per tante che vivono analoghe situazioni. Infatti Michela è riuscita, attraverso la rete, a mettere insieme diverse donne sparpagliate per l’Italia che hanno avuto la medesima sventura di intercettare quelli che – a detta loro- sono gli affari sulla pelle delle donne vittime di violenza.
La stampa ha parlato del suo caso (un paio di articoli sul Mattino in cronaca locale) dopo sono emerse nuove promesse e imminenti soluzioni della vicenda. Oggi, però, Michela è ancora al punto di partenza. Chissà per quanto ancora. La particolarità del soggetto non cancella la drammaticità della situazione e le relative responsabilità di ciascun protagonista. Lei non può neppure prendere i panni e la biancheria personale rimasta in casa (dove nel frattempo è stato messo ai domiciliari il marito): l’istanza presentata al giudice giace inevasa chissà dove. Non serve aggiungere altro.
dal quotidiano “Le Cronache”