NovaetveteraFirenze, alluvione del 1966: quando le ansie di Wojtyla passarono per Eboli

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A distanza di cinquant’anni dalla disastrosa alluvione di Firenze, abbattutasi sulla città-simbolo del Rinascimento italiano nella notte del 4 novembre 1966 per i violenti nubifragi che provocarono la tracimazione dell’Arno in corrispondenza di Ponte Vecchio, se ne trova il ricordo anche in una lettera del giovane arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla al parroco di S. Bartolomeo in Eboli, D. Teodoro Russomando.

 

La circostanza della corrispondenza è data dal soggiorno il 28 novembre 1965 del presule polacco, che tredici anni dopo sarà eletto papa con il nome di Giovanni Paolo II, nella parrocchia ebolitana per la prima comunione delle figlie dell’amico e compagno liceale Zdzislaw Bernaś, medico-dentista, esule in Italia, a Eboli, per le vicende che portarono la Polonia nel blocco sovietico all’indomani della spartizione di Yalta. L’occasione del soggiorno nella canonica di S. Bartolomeo del futuro Giovanni Paolo II fu data dall’invito dell’amico e, al tempo stesso, dalla sua impossibilità ad ospitare il prelato presso di sé per le ristrettezze della casa e delle condizioni di vita di un esule. Bernaś, inoltre, approfittava della presenza in Italia dell’antico compagno di liceo per la sua partecipazione da vescovo all’ultima sessione del Concilio Vaticano II, conclusasi il 7 dicembre del 1965. Tutte queste circostanze diventano il motivo di conoscenza e di corrispondenza tra Wojtyla e D. Teodoro che si prolungano negli anni, anche durante il lungo pontificato pur filtrate attraverso gli uffici di segreteria del Vescovo di Roma.

La lettera in italiano, dattiloscritta su carta intestata Archiepiscopus Cracoviensis, data 26 novembre 1966 e reca l’autografo dell’arcivescovo metropolita, il quale, singolarmente, si firma “Carlo Wojtyla” con chiaro omaggio a quella che diventerà il 16 ottobre 1978 “la nostra lingua italiana”. Esordisce lamentando il ritardo con cui ringrazia per gli auguri onomastici inviati dal parroco e al tempo stesso li ricambia con la memoria di S. Teodoro che pure cade il 9 dello stesso mese di novembre. La giustificazione è data dal fatto che “anche il povero Arcivescovo occupatissimo, specie dopo il Concilio, ha poco tempo per la corrispondenza, diventata pure immensa dopo il Concilio”. E’ chiara l’allusione alla complessa novità dei compiti pastorali che s’impongono ora al vescovo nella fase di attuazione del Vaticano II.

Così, dopo i saluti di rito ai familiari di D. Teodoro, madre e sorella, cui si associa anche D. Mariano, perito-teologo, pure lui ospite a Eboli, l’attenzione si sposta sulla catastrofe italiana. “E adesso la mia compassione profonda alla bellissima e tanto cara Italia, sciagurata (sic) così terribilmente, specie la Toscana e il Veneto!”. La violenza delle acque sempre incombente è ricordata con citazioni dal Salmo 103, nel testo latino della cosiddetta neo-vulgata, cioè nella versione condotta sull’originale ebraico e approvata nel 1945 da Pio XII. Wojtyla ricorre alle parole del salmista rivolte a Dio: “Hai rivestito la terra con l’Oceano come con una veste”, ricordando nel contempo che “le acque si sono ritirate, fuggendo, al suono della Tua voce; hai posto un termine da non superare perché esse non ricoprano di nuovo la terra”. Auspica quindi in chiusa: “Che si salvino tutti questi splendidi monumenti d’arte e di cultura italiana unica al mondo, e che il Signore protegga per mano dei misericordiosi la povera gente così numerosa che ha perduto i suoi cari ed il suo bene”. Parole quanto mai attuali anche di fronte ai disastri dei recenti terremoti del centro Italia, l’ultimo dei quali ha abbattuto la basilica di S. Benedetto a Norcia, il simbolo per antonomasia delle pur negate “radici cristiane europee” per cui si batterà Giovanni Paolo II per tutto un pontificato.

Questa lettera è parte, come si è detto, di un folto carteggio tra Wojtyla e D. Teodoro occasionato dai fatti ricordati. Ci fu anche l’invito dell’arcivescovo nel 1967 al parroco di un soggiorno a Cracovia per ricambiare finalmente l’ospitalità ebolitana, formulato nell’ambito della “visita di calore”, ovvero di congratulazione, presso il pontificio collegio polacco di Roma per la creazione a cardinale di Wojtyla. In quell’occasione il neo-cardinale si presentò ai suoi visitatori in nigris, in abito talare nero, e, innanzi alla domanda del perché non sfoggiasse la porpora appena conferita, ebbe a replicare con fine umorismo che il “rosso” dalle sue parti non era ben visto. I fatti dell’anno successivo con la rivolta di Praga e la repressione sovietica dimostrarono che il rosso comunista non era obiettivamente di buon auspicio. Di fatto, per questa ragione, una delle vittime della repressione fu anche il viaggio di D. Teodoro a Cracovia che fu bloccato al confine tra Austria e Ungheria per l’irrigidirsi della “cortina di ferro”. Il parroco avrà modo d’incontrare Wojtyla solo nel 1978 ormai papa con il nome di Giovanni Paolo II. L’ultimo incontro nel 2003, nell’udienza generale del 14 maggio, con un Giovanni Paolo II già colpito pesantemente dal Parkinson, che, tuttavia, al solo evocare il nome Bernaś, ebbe un guizzo di memoria, riconoscendo nell’anziano sacerdote inginocchiato sulla predella del trono papale il D. Teodoro di Eboli “dove Cristo si è fermato”, come pure aggiunse abbracciandolo. Di tutto ciò vi è traccia in una sequenza di foto del fotografo ufficiale del Vaticano Arturo Mari, sotto lo sguardo sorpreso e divertito di mons. Harvey, all’epoca prefetto della Casa pontificia. Non vi è traccia, invece, del nome di D. Teodoro nell’iscrizione al monumento che Eboli ha elevato a Giovanni Paolo II davanti alla chiesa di S. Bartolomeo per ricordarne il soggiorno del 1965. Sta scritto nella Bibbia “altri semina, altri raccoglie”, ma alla fine, si sa, parlano solo le pietre, che sono i documenti della Storia.

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Nicola Russomando

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