La degustazione di un tipico menu pompeiano, ogni martedì e sabato negli Scavi, preparato secondo le ricette e consumato secondo le modalità del passato nel contesto storico originale è l’iniziativa della Coldiretti resa possibile grazie al protocollo con la soprintendenza per i Beni archeologici di Pompei e alla collaborazione con il Grande progetto Pompei. Con Eatstory, inaugurato oggi alla presenza del ministro Dario Franceschini, Coldiretti rende pubblico uno studio secondo cui: “da noi il cibo ha una storia ed il progetto, che proseguirà per tutte le festività di Natale e fine anno, punta a fare rivivere ai visitatori degli scavi atmosfere e sensazioni del passato con la degustazione di pietanze o l’acquisto di prodotti preparati secondo le tecniche di allora”.
“Immancabile sulle tavole dei pompeiani – sottolinea la Coldiretti – era una sorta di colatura di alici ancora molto diffusa in Campania che si preparava con le interiora delle sardine, che venivano mescolate con pezzi di pesce sminuzzati, uova di pesce e uova di gallina per poi essere lasciata al sole e nuovamente pestata per trasformarla in una poltiglia omogenea. Dopo sei settimane di fermentazione, il prodotto ottenuto, detto liquamen, veniva posato in un cesto dal fondo bucato e mentre un residuo, considerato commestibile e noto col nome di hallec o faex, colava dal cesto, vi rimaneva il prodotto finito detto garum con declinazioni diverse a seconda del pesce usato”.
Appena alzati, la mattina, i pompeiani facevano una prima colazione (jentaculum) a base di pane con aglio e formaggio, oppure datteri, uova, miele e frutta, e a volte anche di carne, dal momento che la colazione costituiva uno dei due pasti principali della giornata. A volte i cibi del jentaculum erano gli avanzi che ogni invitato aveva il diritto di portare via dal banchetto della sera precedente. I bambini, andando a scuola, si fermavano lungo la strada e comperavano biscotti appena sfornati (adipata). Verso mezzogiorno, poi, seguiva uno spuntino leggero (prandium) tanto per arrivare non troppo affamati all’ora della cena. Era in genere un pasto freddo e rapido, con legumi, pesce, uova e frutta. Il pasto principale in tutto il mondo romano era costituito dalla cena, più o meno abbondante, consumata ad iniziare dal pomeriggio, tra le due e le tre, dopo essersi recati alle terme. Dopo la cena seguivano le bevute in un triclìnio con il vino che era la bevanda più diffusa e veniva prodotto in due qualità: bianco e rosso, tagliato con acqua e aromatizzato con miele, spezie o erbe, secondo la soprintendenza di Pompei.
Il vasellame da mensa consisteva in ciotole, brocche, bicchieri. Normalmente si mangiava con le mani non esistendo forchette, ma sono stati rinvenuti cucchiai e coltelli. Per questo, spiega la Coldiretti, erano serviti ai commensali dei catini con acqua per lavarsi la mani.
Per le famiglie più povere la cena costituiva l’unico pasto della giornata. Gli strati inferiori della popolazione consumavano cibi e bevande estremamente semplici, cibandosi di pane nero, di qualità scadente (panis plebeius) e raramente di carne, più spesso di piccoli pesci poco pregiati, salati e conservati (gerres, menae), economicamente accessibili; tra le verdure, quelle meno costose erano i cavoli e i porri. Appartenevano al ricettario della cucina povera salse fatte con erbe pestate e condite con olio; né mancava il formaggio. Nelle classi medio-alte il cibo non aveva solo la funzione di nutrire, ma era simbolo di una condizione sociale privilegiata, dove l’opulenza della mensa costituiva segno di prestigio sociale.
Ai ricchi era riservata la prerogativa del banchetto, che diventava, così, il momento più importante della giornata e si svolgeva secondo una precisa ritualità che era la medesima a Roma e nelle altre città dell’impero. “I cibi più ricercati – conclude la Coldiretti – erano preparati con la massima cura dai cuochi e nelle più ricche dimore non potevano mancare strutture per l’allevamento di pesci (piscinae), di uccelli selvatici (aviaria) nonché di selvaggina (leporaria).