Da qualche tempo a Salerno, presso la Congrega del S. Rosario annessa alla parrocchia di S. Domenico nel centro storico della città, si sta facendo esperienza della celebrazione della messa in rito antico, secondo lo spirito e la lettera del motu proprio di Benedetto XVI Summorum Pontificum.
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Appuntamento quindicinale, il sabato, con celebrazione vespertina prefestiva alle 19,30, un piccolo gregge di fedeli vi conviene per un’esperienza che è di comunione con la Chiesa tutta, oltre che di partecipazione alla tradizione bimillenaria della Cattolica. Tale è stato infatti l’intento di Benedetto XVI, che, nel liberalizzare l’uso del messale tridentino, ha inteso in primo luogo reintegrare l’unità della Chiesa, dovere primario del papa, recuperando per tutti una forma della lex orandi mai in realtà abrogata, neppure dal messale riformato di Paolo VI.
Del resto, una cosa è l’amore per la Tradizione della Chiesa, che non si esaurisce nell’adesione a forme esteriori, bensì è partecipazione ad un corpo vitale di trasmissione della fede, una cosa è il tradizionalismo che nega alla tradizione il suo intrinseco dinamismo, che è evoluzione nella comprensione della verità della fede. Un concetto che fu ben presente nella lettera in latino che Paolo VI volle indirizzare nel 1976 a mons. Lefebvre prima d’irrogargli la sanzione canonica della suspensio a divinis, laddove il pontefice, oggi beato, riaffermava una nozione di tradizione compatibile con il dinamismo dell’aggiornamento nella fedeltà a quanto ricevuto. “Ego enim accepi a Domino quod et tradidi vobis” (ho ricevuto infatti dal Signore quanto anche vi ho trasmesso): sono le parole con cui l’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinzi introduce la più antica delle formule consacratorie, il centro vitale di ogni celebrazione eucaristica. Sono anche le parole che fondano la tradizione della Chiesa e ne garantiscono l’autenticità al punto che possono essere definite sigillo della fede. E risulta, a questo punto, facile l’equazione tra il verbo “tradere”, trasmettere, e “traditio”, tradizione, che, come si suole dire in gergo tecnico, è nomen actionis, ovvero strumento attraverso cui si compie l’azione.
La messa che si suole definire tridentina, perché strutturata nella sua forma tipica dalla ricognizione nel 1570 di Pio V in ossequio ai dettami del Concilio di Trento, ma che più giustamente dovrebbe dirsi gregoriana in quanto ascendente a Gregorio Magno e al VI secolo, è anche tutto questo, specchio della tradizione e fondamento dello stesso aggiornamento del messale riformato, propugnato da un altro Concilio, il Vaticano II. Attraverso la prima è possibile comprendere meglio lo stesso rito riformato specie per il tramite di ciò che è venuto meno nel nuovo ordinamento della messa. Ovvero il rito di purificazione del sacerdote e dell’assemblea nell’approcciarsi all’altare e la dimensione del silenzio che è “forma” dell’adorazione del mistero.
Per i Padri della Chiesa, per Cirillo di Alessandria, è luogo comune che “il Mistero va adorato nel silenzio”, una dimensione pressoché scomparsa nelle messe in rito riformato, in cui prevale quella “partecipazione esterna”, formula con cui Benedetto XVI ha racchiuso la tendenza dei fedeli e dello stesso sacerdote a rendersi protagonisti della celebrazione. Protagonista della celebrazione resta invece Cristo cosa che nel rito antico è anche plasticamente evidente nell’ascesa progressiva che fa il sacerdote dei gradini dell’altare, ai suoi piedi da penitente come tutto il popolo di Dio che vi è radunato, al suo culmine come celebrante attraverso cui agisce Cristo stesso nel presiedere il memoriale della sua Passione.
Opportunamente D. Mauro Gagliardi, cui è stato affidato dall’arcivescovo Moretti l’ufficio di celebrare le messe in rito antico nella diocesi di Salerno, ha ricordato nella solennità del Corpus Domini di sabato 28 maggio come l’adorazione sia la premessa essenziale per accostarsi alla stessa comunione. Ricordando S. Agostino, già ripreso da Benedetto XVI nell’esortazione Sacramentum Caritatis, “peccemus nisi adoraverimus” (peccheremmo se non adorassimo), il sacerdote ha quasi riassunto il senso ultimo di una forma di celebrazione della messa che ha come suo nucleo irradiatore l’adorazione del Mistero. Non che questo manchi nel rito di Paolo VI, ma l’abitudine all’ordinarietà rischia di travolgere, e in molti casi ha già travolto, la percezione stessa del mistero che vi si compie, cui al contrario la solennità della lingua latina e del gesto, la profondità del silenzio durante la consacrazione conferiscono dimensione di percepibile realtà.
Sempre Paolo, nella sua esortazione ai cristiani di Corinto, abituati evidentemente a confondere la celebrazione eucaristica con una normale occasione conviviale, li ammoniva a “non mangiare questo pane e a non bere questo calice del Signore indegnamente per non essere poi colpevoli verso il corpo e il sangue del Signore”. Parole sempre attuali, che ancora oggi sono rivolte a quanti, facendo della messa un “banchetto eucaristico”, riducono ad espressione conviviale il Mistero della Passione ridimensionando il senso stesso del Sacrificio che vi si compie. Anche in questo l’esperienza del rito antico è valida a reintegrare quanto la cattiva abitudine tende a travolgere o, inopinatamente, ha già travolto.
Nicola Russomando