OmissisBurocrazia e stellette: i militari malati e le tortuose pratiche per la «riqualificazione»

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Se hai un problema che deve essere risolto da una burocrazia, ti conviene cambiare problema. Lo scriveva -senza troppi sforzi creativi- Arthur Bloch molti anni fa, ed aveva ragione. Ma quando si tratta di salute, per giunta in ambiente militare, in Italia, «cambiare il problema» è materia per santi o taumaturgi.

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Al punto che un numero imprecisato di membri dell’esercito si trova dinanzi a questa alternativa: scegliere tra la salute e il lavoro. E’ la condizione vissuta dai  cosiddetti “non riqualificati” dalla Difesa: militari operativi, anche in scenari internazionali, con malattie spesso gravi che non vengono assegnati (riqualificati) ad incarichi e sedi compatibili. O almeno non con la necessaria speditezza. Le leggi lo prevedono, naturalmente ove ricorrano le condizioni, di salute e di necessità strutturali del personale. 

Fino alla decisione finale restano nel limbo di un periodo indefinito, burocratico, fatto di carte che vanno e vengono, uffici, codici, timbri, commissioni. L’Inferno italiano in mimetica, insomma.

Non stiamo parlando dell’uranio impoverito o di altre patologie che lasciano aperti spazi interpretativi sull’eziologia del male di ufficiali e sottufficiali: si tratta di malattie «normali», fegato, reni, bocca, occhi non ancora in fase avanzata ma che prima o poi vi entreranno, a rigor di scienza e di certificazioni mediche di strutture pubbliche, sia civili che militari.

«Fanno di tutto per logorarti, non decidono, così alla fine ti congedi e te ne vai. Si incentiva l’abbandono e non credo sia sempre casuale la cosa». Lo dice a Libero uno di questi uomini, entrato nell’esercito circa quindici anni fa e da tre in lotta con il Moloch della Difesa. Siciliano, impiegato in un reparto del Friuli, ha una grave malattia agli occhi, certificata da almeno tre pile di fascicoli, una valanga di scartoffie che impancano il trentacinquenne ad un’esistenza sospesa, al pari di molti altri sparsi sul territorio. Casi che non emergono tra la cronaca con la stessa facilità di quelli dei civili: eppure dipendenti pubblici sono alcuni, dipendenti pubblici sono i militari. 

Non lo riqualificano, non gli assegnano una sede più vicina al domicilio che favorisca le cure, nonostante le carte dicano che si debba. E qui Libero scopre che c’entra la mortifera burocrazia all’italiana, per giunta in divisa, ma pure altro: i soldi. Sì, perché quando l’esercito trasferisce d’autorità la sede di un dipendente, anche per motivi sanitari, deve metter mano al portafogli e riconoscere un’indennità aggiuntiva (la cosiddetta ‘Legge 100’). Essendo le risorse notoriamente scarse, succede che i punti di vista tra articolazioni e uffici della stessa struttura configgano e blocchino tutto: chi ne paga il fio è il militare, che intanto continua a fare quello che faceva prima e che non potrebbe fare. Che poi i soldi della legge 100 soddisfino più le pratiche degli ufficiali che non quelle dei sottufficiali, potrebbe essere una storia nella storia.

Per non dire della via crucis che inizia dal momento della scoperta della malattia. L’ufficiale medico della caserma o del reparto stila il primo referto e ti spedisce in ospedale. Qui, una volta riscontrata la diagnosi (se riscontrata) si fa una cartella che lo stesso militare consegnerà al rientro in sede. Dentro vi troverà scritto: il soggetto è malato, non può stare più dove sta e fare quel che fa (sparare, fare campi, un certo tipo di esercitazioni, etc.), dovete riqualificarlo. A quel punto mandano la pratica a Roma, presso il Dipe (Dipartimento per l’impiego) che la valuta e la gira, con la relazione dei propri Dss (dirigenti servizio sanitario) ad una commissione centrale, i cui membri cambiano sovente da un turno all’altro, che avrà parole definitive e inappellabili: potrebbe infatti non considerare le patologie, seppur ampiamente certificate, sufficienti per modifiche e trasferimenti. Se tutto collima, neppure è detto che sia finita: da Roma la pratica rimbalza nuovamente nel reparto d’origine con le prescrizioni per il comandante e l’ufficiale medico, che stileranno un’altra relazione tecnico-operativa. Per poi ritrasferire tutto a Roma di nuovo.

«Si blocca tutto e nel frattempo è come se vegetassimo. Eppure amavamo questo lavoro» conclude il giovane siciliano. In attesa del giorno in cui avrà bisogno del trapianto di cornea per ambedue gli occhi: parola di militare, nero su bianco.

(dal quotidiano “Libero” dell’ 8 maggio 2016)

Peppe Rinaldi

Giornalista

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