Non esiste «agenzia» di contraffazione di documenti più grande della Campania: e Napoli è la sua capitale. Lo sanno tutti, lo dicono tutti, lo confermano spesso i fatti quando incrociano la grande cronaca. “Allah si è fermato a Eboli” titolava Libero sabato scorso: tempo dodici ore dall’uscita in edicola e finiva in manette proprio nell’area descritta dal reportage, Djamal Eddine Ouali, algerino quarantenne, inseguito da gennaio da un mandato di cattura internazionale chiesto dalla polizia belga per i fatti di Parigi.
{source}
<script async src=”//pagead2.googlesyndication.com/pagead/js/adsbygoogle.js”></script>
<!– Sottotop menu –>
<ins class=”adsbygoogle”
style=”display:inline-block;width:694px;height:90px”
data-ad-client=”ca-pub-5807540174219874″
data-ad-slot=”2846875425″></ins>
<script>
(adsbygoogle = window.adsbygoogle || []).push({});
</script>
{/source}
Membro di una cellula terroristica, il suo compito sarebbe stato fornire passaporti agli attentatori del Bataclan, a loro volta collegati con quelli di Bruxelles. Un ruolo centrale, determinante. Ouali non ha aperto bocca dinanzi ai giudici che ne hanno convalidato il fermo in attesa dell’estradizione (si deciderà il primo aprile) ma a chi l’ha avvicinato nel carcere di Salerno-Fuorni pare abbia detto di non sapere nulla né di terrorismo né di documenti contraffatti. Si vedrà.
Certo è, oggi, che la saldatura tra due grandi «tradizioni», quella indigena, ultra-specializzata da sempre nella contraffazione, e quella dell’estremismo islamico, rende tutto più preoccupante. Anche perché i casi venuti finora alla luce parlano di una qualità e di un grado di perfezione tecnologica raggiunti dai falsari nella produzione dei documenti spesso sconosciuti altrove, anche nel circuito legale.
Non molto tempo fa, in città, nel cuore del “Napolislam” (l’area della stazione centrale, Piazza Mercato, corso Arnaldo Lucci) di fronte al centro di preghiera più grande, è finito in manette un marocchino, Brahim Chougred, titolare di una stamperia clandestina, capace di riprodurre permessi di soggiorno, passaporti, carte d’identità, patenti, carte di circolazione, certificati di proprietà del Pra, contratti di assicurazioni automobilistiche e tanto altro ancora: il tutto in duplice nazionalità, sia marocchina che italiana, a seconda delle esigenze. Decine di altri episodi scoperti nel corso degli anni qua è là sul territorio della Campania, in particolare tra Napoli, Salerno e Caserta, danno il segno di un’inedita alleanza con il crimine locale, almeno per quanto riguarda le forniture di documenti, materia vitale per un terrorista. Girano soldi e i soldi non hanno odore, neppure per la “cattolicissima” camorra.
Altro discorso è poi la convivenza con le popolazioni locali, ambito nel quale i clan, a struttura prevalentemente «popolare» riescono a far da contraltare, contenendo fenomeni degenerativi grazie ad un certo controllo mantenuto sul territorio. Se chiedi a un abitante di Posillipo o del Vomero ti dirà che l’integrazione è un valore, che non ci sono problemi con le comunità musulmane, eccetera. Farsi un giro nel cuore della Moleenbeck ai piedi del centro storico di Napoli partendo dal quadrilatero di Piazza Garibaldi, racconta invece tutta un’altra storia. A Porta Nolana, non più tardi di otto mesi fa, una napoletana del quartiere fu strattonata da un immigrato tunisino, ovviamente abusivo, infastidito dall’urto che la donna aveva involontariamente dato alla sua merce. Ne scaturì il finimondo, con i napoletani da una parte e gli immigrati dall’altra a lanciarsi contro di tutto, scene in scala quasi da ‘Quattro Giornate di Napoli’. Una situazione ancora irrisolta nella metropoli più «islam-friendly» d’Italia, con un sindaco ammaliato dall’epica terzomondista, sostenitore di onlus simpatizzanti di Hamas (storica la colletta fatta in consiglio comunale per Freedom Flotilla contro l’embargo di Gaza), dove concedere la cittadinanza onoraria al presidente palestinese Abu Mazen è stata presentata come una conquista di civiltà.
Ma la storia incredibile di Napoli, alla luce dei fatti di questi giorni, è chiedersi che fine abbiano fatto Soufienne Blel e sette suoi amici, tutti tunisini e tutti con sede eletta a Napoli, almeno fino a novembre scorso, quando la loro storia è venuta alla luce.
Ma chi è Soufienne Blel? C’è chi lo ha definito il John Nash della jihad perché si tratta di un giovane e brillante tunisino di buona famiglia, laureatosi alla Federico II a pieni voti e in tempi record in matematica. Descritto come una specie di genio, sembra si sia radicalizzato proprio qui, nel cuore di Napolislam, dopo un percorso sulla via della salafismo sunnita integrale avviato pochi anni prima. Con lui altri sei complici di una cellula che chiamava alle armi in favore dell’Isis attraverso la propaganda via social network. Dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, sia lui che i suoi sodali ebbero uno scontro cruento con un «imam» napoletano, reo di esser stato critico nei confronti del blitz terroristico nel settimanale satirico: Blel e i suoi cantavano invece le lodi dei fratelli Kouachi, i martiri che sparavano all’impazzata sui vignettisti francesi inneggiando alla grandezza di Allah. Individuato dai servizi segreti, sottoposto a controllo continuo e dichiarato di pericolosità “Livello 5” (su 10) almeno fino a quel momento, sembra sia stato inghiottito dal nulla, dopo che la sua vicenda era emersa in un’ inchiesta di Simone Di Meo per Lettera43.
Nella moschea di via Arnaldo Lucci, immobile ospitato su due livelli, è un andirivieni di fedeli di ogni etnia, in prevalenza maghrebini, molti senegalesi, ivoriani, pakistani. Il venerdì pregano, come pregano anche in altri due centri culturali nelle vicinanze. Scene consuete d’Eurabia, a seconda della prospettiva con cui si guardano le cose. La pagina Facebook della comunità islamica di Napoli non è operativa dal 13 gennaio scorso, l’ultimo post risale alla strage di Istanbul con il comunicato di condanna dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane). Un paio di post prima campeggiava un rigoglioso “Denunciate Libero” per bocca dell’imam locale: si riferiva a questo giornale, ovviamente, per la storia del titolo “Bastardi islamici” successivo alle carneficine di Parigi e che tanto scandalo suscitò al tempo. «Postini del diavolo» – ci definisce Amar Abdallah, l’imam in questione, in un accorato articolo del Mattino postato subito dopo- «perché fomentano l’odio».
Una bella torsione della logica, che spiega meglio di centinaia di articoli, lo squilibro della convivenza. Anche a Napoli.
(dal quotidiano “Libero” del 29 marzo 2016)