Non possono neppure dire che se il destino non avesse giocato uno dei suoi scherzi avrebbero avuto una vita migliore: scambiate o no in culla il giorno della nascita, non sarebbe andata bene lo stesso a due donne pugliesi, stando a ciò che della loro dura esistenza familiare raccontano i faldoni di due processi, uno al tribunale di Trani e uno a Bari. Ma qualcosa, molto, invece possono rivendicare. Ad esempio 9 milioni di euro di danno patito.
E’ la storia di due ragazze di Canosa che un giorno di tre anni fa, grazie a Facebook, scoprono che l’una avrebbe dovuto vivere la vita dell’altra perché qualcuno aveva fatto o qualcosa era accaduta in ospedale ventisei anni prima.
Ne ha scritto ieri la Gazzetta del Mezzogiorno, raccontando di Antonella Z. e Lorena M., nate il 26 giugno 1989 nello stesso posto ma vissute l’una nella famiglia naturale dell’altra dopo l’oggettivo errore -ed orrore- commesso da chissà chi in chissà quale momento. Avutene certezza con la prova del Dna, oggi chiedono giustizia allo stato italiano nelle sue articolazioni locali: giustizia che in casi come questi non può che tradursi in un corposo risarcimento danni. Siamo, infatti, già a nove milioni di euro chiesti dai protagonisti dell’avventura all’ex Ausl Ba 1 (ora Asl Bari) e alla Regione Puglia: che non sono solo le due giovani donne ma anche i genitori di una di esse (quelli veri di Antonella) con annessa prole, privata del suo naturale diritto al godimento della fratellanza. Sotto il profilo giuridico non farebbe una grinza. Mentre di grinze – e di stravaganze- questa storia ne ha tante. A cominciare da come è saltata fuori.
«Persone che potresti conoscere»: alzi la mano chi, tra i miliardi di utenti del social network più famoso del mondo non conosca l’algoritmo che seleziona e sfronda i potenziali soggetti con cui «condividere l’amicizia» e tutto il resto. Ad Antonella Z. una di quelle persone viste in foto su Facebook la «conosceva» eccome, le ricordava troppo sua madre vista una somiglianza quasi perfetta. Ma era la sorella di Lorena M., l’amica di Facebook, che non le somigliava per niente ma che, guarda caso, era nata lo stesso giorno, lo stesso mese e lo stesso anno nello stesso reparto materno dello stesso ospedale: e nelle stesse ore -si appurerà- quindi con ritmi di cambio tra nido e stanza della madre sostanzialmente allineati. Qualcosa non tornava. E così, dopo i primi contatti, la decisione di andare a fondo e capire se quei sospetti, naturali quanto l’istinto, fossero fondati. Lo erano: il Dna dell’una coincideva con quello dei genitori dell’altra e viceversa, l’unica spiegazione plausibile era che il diffusissimo incubo quel giorno si fosse materializzato.
Può succedere, con sfumature diverse, la statistica non è molto avara di casi: come quello di alcuni anni fa a Mazara del Vallo, oppure a Rivoli nel 2010 dove però ci fu il lieto fine grazie a una mamma che se ne accorse in tempo, o, ancora, il più recente di due famiglie francesi di Cannes risarcite con un paio di milioni di euro, un fatto analogo al nostro. In fondo, il cuore dei giudizi in corso. Prossime udienze a settembre: il processo, il luogo dove alla fine il danno va dimostrato con carte, relazioni, consulenze, comparse e memorie. E dove quella vita vissuta al posto dell’altra va raccontata dettagliandone il profilo, le chances mancate, l’incrinatura dell’identità in relazione al contesto familiare e sociale, le opportunità e i traumi. Per non dire del dolore esistenziale, morale, psicologico. Qui, per Antonella e Lorena, le carte parlano di degrado e di abbandono, la pessima infanzia di ambedue, chi rinchiusa in istituto e poi data in adozione dopo la sfascio della (ritenuta) famiglia naturale in seguito a certa dissolutezza del (ritenuto) padre, chi, contestualmente, era flagellata da complessi di inadeguatezza, incapacità di relazione familiare, chiusura totale e asocialità alternate ad eccessiva esuberanza giovanile successiva. Al di là delle carte, un danno immenso facilmente intuibile.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 22 luglio 2015)