Almeno dal 20 febbraio 1963, con la messa in scena de “Il Vicario” di Rolf Hochhutt, circola la leggenda nera, mai seriamente verificata in sede storica, del “silenzio” di Pio XII innanzi all’abominio della Shoa. Neppure la pubblicazione de “Actes et documents du Saint Seìges relatif à la seconde guerre mondiale”, voluta da Paolo VI per dissipare i dubbi circa la condotta del suo predecessore è riuscita a sopire le ricorrenti polemiche sulla figura di Eugenio Pacelli, che della seconda guerra mondiale può ben essere considerato a sua volta una vittima.
Un ulteriore contributo alla verità storica dei fatti viene dalla recente pubblicazione di “Da Trento ad Assisi. Giuseppe Placido Nicolini, vescovo della città serafica” di Francesco Santucci. Il volume, sull’episcopato di Placido Nicolini, benedettino vescovo di Assisi dal 1928 al 1967, ricostruisce anche l’azione che il presule svolse in difesa degli ebrei perseguitati dai nazi-fascisti e per esplicito mandato di Pio XII. Colpisce, nella ricostruzione operata esclusivamente su documenti di archivio (l’autore è del resto archivista della diocesi di Assisi), la normalità che Placido Nicolini, i sacerdoti e i religiosi coinvolti nell’opera di protezione dei perseguitati, seppero assicurare a quelli che solo in seguito saranno definiti “fratelli maggiori” dei cattolici. In modo particolare, la corrispondenza intercorsa negli anni del dopo-guerra tra il vescovo e la famiglia ebraica Viterbi, il cui padre Emilio fu docente all’Università di Padova, documenta l’opera eccezionale di Placido Nicolini non solo per la salvezza materiale, ma anche per il rispetto del credo religioso del popolo ebraico.
Infatti, Emilio Viterbi ricordava come, nel monastero assisiate di clausura di S. Quirico, non solo vi fossero ospitati numerosi ebrei, ma fosse messo a loro disposizione anche un “accogliente locale” perché i perseguitati potessero celebrarvi la loro solennità del Kippur, senza rinunciare a nulla del rituale, compreso il suono dello Sciafar, “le cui squillanti note annunciano che il Signore ha perdonato i peccati di chi si è sinceramente pentito”. Alla fine della cerimonia le monache di clausura, “con il loro mite e sereno sorriso sulle labbra, desiderano loro stesse servire il pasto che chiude la lunga giornata penitenziale”.
Testimonianza impressionante, che fa di per sé giustizia di un antisemitismo attribuito alla Chiesa cattolica, la cui opera a favore degli ebrei non fu solo di tipo umanitario, ma anche di natura religiosa. Chiare del resto le parole di Nicolini nel settembre del 1943 al suo collaboratore don Aldo Brunacci: “Dobbiamo organizzarci per prestare aiuto ai perseguitati e soprattutto agli ebrei; questo è il volere del S. Padre Pio XII. Il tutto va fatto con la massima riservatezza e prudenza. Nessuno neppure tra i sacerdoti, deve sapere la cosa”.
Prudenza e riservatezza che, nella tragica contabilità della guerra, avranno ragione di quanti avrebbero voluto una dichiarazione esplicita di condanna dell’antisemitismo da parte di Pio XII, che pure non era mancata nel 1937 con l’enciclica Mit brennender Sorge del suo predecessore Pio XI, comunque ignorata da tutte le cancellerie europee.
E i numerosissimi attestati di riconoscenza da parte di ebrei scampati alla furia nazista varranno a Placido Nicolini la “Medaglia di Giusto tra le Nazioni”, riconoscimento postumo dello stato d’Israele nel 1977 alla sua opera meritoria.
Se questa è la componente storica più facilmente individuabile della biografia di Placido Nicolini, non va dimenticata, come del resto ricostruisce l’autore, la straordinaria statura spirituale di questo figlio di S. Benedetto, divenuto vescovo della città del “Serafico Padre Francesco”. Di origini trentine, nato nel 1877 a Villazzano, divenuto professo dell’Ordine di S. Benedetto nel 1893, nel 1908 abate di Praglia, poi nel 1919 della ricostituita abbazia di S. Giustina di Padova, in quello stesso anno viene destinato a succedere ad Angelo Ettinger come abate ordinario della Badia di Cava dei Tirreni. I nove anni di abbaziato a Cava rappresentano un tappa essenziale nella storia dell’abbazia nel Novecento e nella vita degli stessi monaci. Ne è conferma il legame con Cava, ben documentato nel volume, che non verrà mai meno nella vita di Nicolini e che è alimentato dal costante riportarsi al suo consiglio di ex abate da parte di monaci e dello stesso Ildefonso Rea, suo immediato successore, per questioni spesso di particolare delicatezza. Ne sono prova varie tracce epistolari, ma soprattutto l’encomio che ebbe a scrivere l’abate di Cava D. Fausto Mezza per il 70° anniversario della sua professione monastica nel 1963.
“Oggi si tratta del Vescovo di Assisi e non più dell’Abate di Cava, ma l’Uomo è rimasto lo stesso. Il suo carattere docile, accogliente, conciliante, non ha subito incrinature, pur tra le alterne vicende e le inevitabili ristrettezze di un lungo governo. Lungo quanto? Ma, il conto si fa presto: 12 anni a Praglia, 9 a Cava, 34 ad Assisi, totale 55 anni di governo. Insomma ha governato per tutta la vita. Ed oggi, eccolo lì: agile e fresco come se il viaggio della vita lo avesse fatto in wagon-lit. Ebbene sì il wagon-lit c’è stato, perché c’è stato –si può dire?- «placidismo», e voglio dire c’è stata la sua bontà e la dolcezza elevate a sistema”. Parole eloquenti, nello stile che fu proprio di Mezza, lo stesso che da monaco nel 1945 si rivolgeva al suo antico superiore scrivendo: “Eccellenza, perdoni lo sfogo filiale che mi sono permesso. Ma con Lei non so tenere segreti. E poi non ho a chi confidarmi, e non mi par vero di poterlo fare con Lei, che per tanti anni ci tenne uniti e contenti con la sola forza dell’amore, senza mai pretendere cortigianeria e servilismo”.
Uno sfogo che forse documenta anche il cambiamento nello stile di governo succeduto a Cava con Ildefonso Rea, poi abate-ricostruttore di Montecassino.
Tuttavia, alla Badia di Cava resta un segno tangibile della presenza di Placido Nicolini. Lo ricorda sempre D. Fausto Mezza nel suo encomio. “Ma un’opera, una almeno dell’Abate Placido, voglio e debbo ricordare. Negli ultimi giorni della sua permanenza a Cava riuscì a dotare la chiesa abbaziale di una bella, antica e prodigiosa immagine della Madonna. Se la fece cedere da una comunità di monache agostiniane di Roma, che, essendosi dovute trasferire in un altro monastero e fondersi in un’altra comunità, non potevano trovare posto per quel grande ed onorifico dipinto del XIV-XV secolo. Sicchè mentre lui, l’abate Placido, stava per lasciare la millenaria badia, una bella Madonna veniva a mettere il suo trono nella storica basilica. Un padre partiva una dolcissima Madre arrivava. Ora mi domando. E’ mai possibile prostrarsi innanzi a quella cara Madonna e non ricordarsi dell’abate Placido?”.
La domanda è retorica solo se se ne conosce la risposta. Sta di fatto che, alla fine del lungo episcopato, Placido Nicolini, avrebbe espresso il desiderio di ritornare nella sua Badia di Cava per compiervi i suoi giorni senza incontrare tuttavia il favore dell’abate in quel momento al governo. Ma la morte, che lo raggiunse serena all’età di 96 anni, il 25 novembre 1973, nella sua Trento vedrà un altro abate di Cava pronunciarne l’elogio funebre nella storica cattedrale. Ancora un volta è il «placidismo» la cifra di una personalità che ha attraversato la storia. D. Michele Marra, suo V successore a Cava, dichiara: “I nostri occhi non contempleranno più quel volto di vecchio-bambino irradiato di umile serenità e di pace, ma il nostro spirito sarà sempre illuminato da quel sorriso, da quel sorriso sarà sempre illuminato il nostro cuore”.
Non sorprende quindi che un uomo di così grande spiritualità abbia saputo essere anche uomo di azione nei momenti cruciali della storia, collettiva e individuale. Per questo è doveroso “fare l’elogio degli uomini giusti che ci furono padri nella fede”. Ce lo ricorda sempre la Bibbia nel libro del Siracide.
Nicola Russomando
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