“Il martirio bianco di Pio VII” potrebbe essere il titolo della tela di Giovanni Gasparro (foto) che ha vinto il premio della fondazione Pio Alferano a Castellabate nel Cilento. In realtà la tela è stata titolata “Quum memoranda” con le parole della bolla di Pio VII con cui quel papa, il 10 giugno del 1809, scomunicava i responsabili dell’annessione degli Stati pontifici e di Roma all’Impero francese proclamato da Napoleone, “qualunque fosse l’onore dell’alta dignità di cui fossero investiti”.
Il nome di Napoleone non vi era esplicitamente citato, come farà, analogamente, Pio IX per Vittorio Emanuele II dopo la breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870, ma ogni riferimento restava trasparente.
Allo stesso modo, il giovane pittore Giovanni Gasparro, classe 1983, esponente di spicco del filone dell’arte sacra in senso classico, pur rivisitata in chiave personalissima, ripropone questa vicenda di per sé emblematica nel contesto del tema, apparentemente allotrio, scelto dalla fondazione, “Murat è vivo”. Ovviamente il riferimento è a Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, succeduto il 6 settembre 1808 a Giuseppe Bonaparte, fratello dell’imperatore, come re di Napoli. E tale resterà sino alla fine dell’impero napoleonico, pur nel disperato e patetico tentativo di conservare il regno al di là delle fortune dei napoleonidi con l’improbabile appello alla liberazione dell’Italia nel proclama di Rimini del 30 marzo 1815.
La scelta di Gasparro si colloca dunque in controtendenza rispetto al tema indicato dalla fondazione, al limite dell’esclusione, come è stato sottolineato da Camillo Langone sulle colonne de Il Giornale in un articolo entusiasta del 6 agosto scorso. Tuttavia, è da dire, che tanto Pio VII quanto Murat si ritrovano singolarmente collegati a vicende di storia locale che passano proprio per Castellabate. Un territorio questo che sin dal nome rimanda alla Badia benedettina di Cava dei Tirreni che, per il tramite di un suo abate, S. Costabile, nel 1122 volle l’edificazione dell’omonimo castello per la difesa di quelle popolazioni dalle frequenti incursioni dei Saraceni.
Ebbene, il 13 febbraio 1807, in ossequio ai principi rivoluzionari, Giuseppe Bonaparte aveva soppresso la Badia di Cava in quanto corporazione religiosa, incamerandone al demanio i beni temporali tra cui il ricco feudo di Castellabate. Restava tuttavia impregiudicata la questione del governo spirituale da sempre sotto la giurisdizione dell’abate di Cava e ricompreso nella diocesi abbaziale con i territori a nord di Salerno intorno a Roccapiemonte, a sud nel Vallo di Diano a Pertosa, nel potentino a Tramutola, di cui l’abate era anche barone, nel Cilento da Castellabate a Casalvelino. Una trentina di parrocchie cui Giuseppe Bonaparte concesse di restare sotto la sovranità di un abate “secolarizzato”, per decreto reale non più monaco benedettino, ma semplice prete secolare, obbligato come tale anche a dismettere la cocolla monastica. L’abate in questione era personaggio della levatura di Carlo Mazzacane, docente di fisica all’Università di Napoli, con un’ottima padronanza del francese, tale da impressionare lo stesso Bonaparte in un incontro a Vietri e a costituire la ragione del singolare privilegio. Non così con Murat, il cui piglio militaresco, avvezzo più ai campi di combattimento napoleonici che alle seduzioni della cultura, nel contesto dell’inasprimento dei rapporti tra Impero e S. Sede, il 21 febbraio del 1810 determinò la soppressione anche della diocesi abbaziale della SS. Trinità di Cava e il passaggio delle sue parrocchie alle diocesi circonvicine. E tale situazione perdurò sino al 3 ottobre 1815, quando, con il ritorno dei Borboni a Napoli, vengono ripristinate le giurisdizioni abbaziali di Cava, Montecassino e Montevergine, nelle more del definitivo Concordato poi stipulato nel 1818 con lo stesso Pio VII.
Dunque, anche se indirettamente, Pio VII, alias Barnaba Chiaramonti anche lui benedettino, e Murat s’incrociano a Castellabate nelle vicende della storia che li videro protagonisti ed oggi nel tema di un premio artistico.
Bene ha colto Gasparro la vicenda umana del “martirio bianco” del papa, effigiandolo rivestito di cotta e mozzetta, con le mani avvinte da ferro e corda, che impugna il crocefisso e con in petto una stampa di una successiva sua bolla, l’Ecclesiam a Iesu Christo, con cui condannerà la massoneria. Tale dovette essere anche la visione che ebbe il comandante della gendarmeria francese Radet la notte del 9 luglio 1809, quando si presentò al Quirinale per eseguire l’arresto e la deportazione di Pio VII, previa intimazione di rinunciare agli Stati pontifici. La risposta è stata quella tramandata dalla storia di un vecchio inerme di fronte alla tracotanza militare, che, all’ordine, risponde semplicemente “non possumus, non volumus, non debemus”. Queste parole sembrano rivivere nello sguardo febbrile del papa, come letto da Gasparro, nel viso emaciato e fermo, nella nervosa impotenza delle mani legate, cui è di contrasto la solennità dell’abbigliamento papale. Il particolare poi di due ulteriori mani che quasi fuoriescono dalle pieghe della cotta papale è clausola di stile dell’autore, ricorrente nelle sue opere, segno forse di forze che vanno individuate al di fuori e oltre la stessa forma fisica umana.
La scelta fuori campo si è dunque rivelata quanto mai pertinente alle vicende storiche di Castellabate nel periodo francese. E ad un comune che da qualche anno ha riscoperto lo stretto rapporto che lo lega alla Badia di Cava, non solo in ordine alla proprietà del castello, giova sapere che è da addebitare proprio a Murat la vacatio di cinque anni del governo abbaziale di quelle zone. La vacatio definitiva è venuta poi col concilio Vaticano II, che ha assegnato stabilmente nel 1972 le parrocchie del Cilento alla diocesi di Vallo della Lucania sul presupposto della necessaria contiguità di territorio.
Il “martirio bianco” di Pio VII racconta anche questa storia e, se oggi ricorre la stessa formula per Benedetto XVI, nessuno tra gli addetti ai lavori se ne meraviglia. Ci sarà bisogno però della forza di un Giovanni Gasparro per renderlo così plasticamente evidente.
Nicola Russomando
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