Lo chiamano risarcimento o camera di compensazione per quei progetti falliti ad un passo dal traguardo: se non ti aggiudichi un incarico se ne troverà un altro di valore pari o superiore a quello sfuggito. Almeno fino a quando conterai qualcosa. Potrebbe riguardare un magistrato di peso come Nicola Gratteri (foto) -che conta eccome- questa legge non scritta della politica: il procuratore aggiunto di Reggio Calabria era sul punto di diventare Guardasigilli nel governo di Matteo Renzi, poi una manina ha sbianchettato quel nome proprio quando sembrava cosa fatta.
Pazienza, sarà per un’altra volta, del resto Gratteri un gran servizio allo stato lo dà già da anni acciuffando fior di delinquenti e ‘ndranghetisti.
Succede così che l’idea di far fare al magistrato della Dda reggina il governatore della Calabria acquisti con lo scorrere del tempo una sua verosimiglianza ulteriore visto che i boatos circolano non da oggi. Ma chi è che lo vorrebbe presidente? Chi se non quel partito che da circa 20 anni -per dirla con Churchill– dà da mangiare al coccodrillo nella speranza di essere divorato per ultimo? Parliamo del Pd, che in Calabria come altrove vive una balcanizzazione momentaneamente sopita con l’occupazione di Palazzo Chigi del front-man Renzi. Il quale domani sarà a Scalea, cittadina del Tirreno la cui amministrazione è stata decapitata da un blitz antimafia alcuni mesi fa. Ci sarà anche Gratteri accanto al premier e al segretario regionale del Pd, Ernesto Margorno, di rito fiorentino, come quasi tutti ormai.
Sarà una giornata con «la schiena dritta», c’è un tipo di elettorato da gestire e lisciare, questo il premier lo sa bene. Si dirà: ma Gratteri non può candidarsi, è un magistrato, per giunta in una circoscrizione che assorbe anche l’ambito di competenza territoriale della sua procura. Ora, saltando a pie’ pari l’articolata sfilza di precedenti di toghe sacrificatesi per i cittadini gettandosi nell’arena politica tra mille battimani, e saltando pure il caso più eclatante di quell’Ingroia capolista alle Politiche in Sicilia (dove, cioè, lavorava fino al giorno prima), sembra che perfino la nuova legge che disciplina le incompatibilità dei magistrati con le cariche elettive offra una via di fuga al noto e bravo magistrato della Locride, già oggi consulente della Commissione Antimafia del parlamento.
Licenziato al Senato il testo del disegno di legge l’11 marzo scorso (che assorbe tre precedenti proposte, da Nitto Palma a Casson per intenderci), vi si specifica in più commi che un magistrato non può candidarsi prima che siano trascorsi cinque anni dal giorno dell’accettazione della candidatura: non può fare il consigliere circoscrizionale, quello comunale, il sindaco e l’assessore, il consigliere provinciale e l’assessore e il presidente della Provincia (ma non dovevano essere abolite?), né il deputato e il senatore, né il ministro, il vice ministro e neppure il sottosegretario. E il consigliere e/o l’assessore regionale? Il disegno di legge passato al Senato (ma non sarà abolito pure questo?) e in arrivo alla Camera, sembrava averli obliterati: invece, all’articolo 11 se ne fa cenno limitandosi però a parlare di «principi che valgono pure per le elezioni regionali» più altre specificazioni che non chiariscono di molto la questione. Infatti, l’unico termine che manca dall’elenco delle incompatibilità per i magistrati, è proprio quello di “Presidente della giunta regionale”? E, si sa, in diritto queste cose contano molto. Alcuni media locali già rincorrono il procuratore come probabile candidato anti-Scopelliti.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 25 marzo 2014)