«Si sparerà ancora, facile che morirà anche lui: l’unica speranza è che la mamma lanci un appello dicendogli di consegnarsi, prima di far secco qualche poliziotto, carabiniere o un innocente». Sono le parole di un «esperto», Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura di Crotone, divenuto collaboratore di giustizia, tra i pochi attendibili rimasti in circolazione considerato il vecchio spessore criminale e l’elevato numero di procure con cui collabora.
Bonaventura sconta le «stravaganze» del sistema italiano: sistemato dallo stato a Termoli, Abruzzo, in una enclave di falsi pentiti calabresi, avvicinato e minacciato dagli ex sodali, vive nel terrore che moglie e figli paghino il conto della collaborazione. Comprensibilmente. Rischio vero, concreto specie dopo strane vicende con un poliziotto addetto alla sua scorta. Da poco ha ottenuto dal ministero d’essere trasferito all’estero: il guaio, il solito, è che da 8 mesi nessuno gli dice più nulla. Insomma, la cara vecchia Italia emerge perfino in queste cose.
Con Libero parla a proposito dell’evasione di Mimmo Cutrì (foto) malavitoso calabrese evaso rocambolescamente il 3 febbraio a Gallarate, durante una traduzione. Un piano organizzato quasi alla perfezione («costato non meno di 100/150mila euro per corruzioni varie, armi e il resto» dice) ma che ha causato la morte del fratello del boss, nel conflitto a fuoco con gli agenti. Le parole della mamma dei Cutrì («non mi faccio mai domande sui miei figli e non ne faccio a loro…» ad esempio) colpiscono molto, non foss’altro per una certa cripticità oltre che per lo sconvolgente disincanto.
Bonaventura, che idea si è fatta lei delle parole della mamma di Cutrì?
«La cosa fondamentale da capire è questa, di natura simbolica: cos’è la “mamma” nel linguaggio della ’ndrangheta?»
L’accogliente ventre delle cosche?
«Esattamente: è la mamma biologica e morale ma pure la mamma simbolica e sociale. Nel caso specifico riconosco il linguaggio, capisco cosa possa esserci nella mente di quella donna. Ma mi sento di dire che deve fermare il figlio, ora lui è una bestia inferocita che porta sulle spalle il peso della morte del fratello. Un macigno che gli ha caricato anche sua madre»
Le donne di ‘ndrangheta hanno ancora il loro ruolo?
«Assolutamente. Se le donne non avranno più un peso nel sistema significa che è già finito in un certo senso, ma non è così. Le donne contano tantissimo, solo loro potrebbero far miracoli se volessero. Ma bisogna offrire un’alternativa vera»
Chi, lo stato?
«Ovvio: non puoi pretendere dissociazioni e collaborazioni se in cambio non garantisci sicurezza, quella vera intendo. Quale mamma metterebbe a rischio la vita dei propri figli sapendo che li daranno in pasto ai maiali, per esempio? Nessuna, men che meno una donna della ’ndrangheta. Nelle faide calabresi sono le donne che incoraggiano la vendetta perché una guerra del genere finisce quando sul campo resta in piedi l’ultimo maschio del clan vincente e a terra quello del perdente. Pensi a quale interesse possano avere le donne in questi contesti»
Tornando al caso Cutrì che ruolo pensa abbia avuto o avrà la mamma del fuggitivo?
«Non doveva parlare in quel modo la signora, ha sbagliato perché così l’ha legittimato di più: come ho già detto, è facilissimo che si sparerà ancora, com’è altrettanto facile che morirà anche lui. Per evitare sangue inutile la mamma deve andare in tv e pregare il figlio di consegnarsi: si potrà poi convertire, potrà cambiare vita ma se continua così è morto sicuramente».
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 7 febbraio 2014)