ARCHIVIONovaetveteraCava, la badia e il nuovo abate tra il governo delle anime, la regola e il servizio

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Petruzzelli Sepe Badia

Regere animas, multorum servire moribus: governare le anime, servire i caratteri di molti: è stato questo il tema ideale, tratto dalla Regola di S. Benedetto, su cui si è dipanata tutta la cerimonia della benedizione del nuovo abate della Badia di Cava D. Michele Petruzzelli domenica 26 gennaio. Il rito, che risale all’XI secolo per il conferimento delle insegne dei vescovi agli abati di monasteri benedettini pur nel difetto dell’ordinazione episcopale, l’anello e il pastorale, segni di fedeltà e di sollecitudine, insieme con la mitra, attribuita però senza la formula d’investitura dei vescovi, sotto conferma  di seguire i precetti della Regola e con l’intronizzazione finale in cattedra, è stato presieduto dal cardinale Crescenzio Sepe, (nella foto di Angelo Tortorella alla sinistra del nuovo abate) presidente della Conferenza episcopale campana, organo di cui è parte lo stesso abate ordinario della SS. Trinità di Cava.  

Alla presenza di un folto numero di presuli campani, del metropolita salernitano Moretti, nella cui provincia ecclesiastica ricade la Badia, di molti esponenti della famiglia benedettina italiana riunificata nella Congregazione sublacense-cassinese e rappresentata dal suo superiore, l’abate Donato Ogliari dell’abbazia di Noci presso cui D. Petruzzelli fino al 14 dicembre scorso ha svolto le funzioni di maestro dei novizi e di priore, nonché di svariate autorità civili, la benedizione è stata preceduta dalla lettura del mandato di Papa Francesco di nomina e di autorizzazione alla stessa. Nomina resa necessaria, come ricorda la bolla papale, dalla rinuncia dell’abate Chianetta, risalente a tre anni addietro, e dalla necessità che l’abate aiuti la sua comunità a “portare reciprocamente i pesi” della vita monastica secondo l’ammonizione di S. Paolo. 

In tal modo, l’omelia del cardinale Sepe ha assunto il tono solenne delle grandi occasioni, solo a tratti interrotto da fine ironia partenopea, con interi passi della Regola benedettina citati dall’originale e tradotti per “chi come noi non conosce il latino”, “Quando uno assume il titolo di abate, deve essere a capo dei suoi discepoli con duplice dottrina, ovvero mostrare tutto ciò che è buono e santo con i fatti più che con le parole”, perché “si adoperi per farsi amare più che temere”, sapendo che “deve esercitare molto la sollecitudine e correre con tutta la sagacia e l’impegno per non perdere nessuna pecora che gli è stata affidata”. E in tempi in cui “l’odore delle pecore” è diventato claim di tutto un pontificato le parole della Regola non possono che rivelare il significato eterno della verità che rappresentano.

Non meno significativo è stato il ringraziamento dell’abate Petruzzelli nel manifestare lo stupore per lo sconvolgimento realizzato dai disegni di Dio nella sua vita di monaco con la nomina alla Badia di Cava. Accolta nel segno dell’obbedienza e nel difetto di comprensione, il neo abate ha dato la sua definizione del termine autorità. Auctoritas dal verbo latino augeo, accrescere, è per D. Michele Petruzzelli “capacità di far crescere gli altri, rendendo presente in monastero Cristo”, ben diversamente da come poteva essere concepita nel lessico costituzionale romano per cui Augusto “era superiore a tutti in autorità”. Nel mezzo vi è proprio lo spartiacque della Regola di S. Benedetto, che, pur attingendo al repertorio giuridico romano, ne muta profondamente contenuti e significato. Alla fine, nel giorno del giudizio, all’abate sarà richiesta la vilicatio, cioè il rendiconto di quest’accrescimento, come ad un fattore, di tutte le anime che gli sono state affidate senza esclusione della propria, “e così temendo sempre il futuro esame del pastore per le pecore affidategli, mentre attende alla cura degli altri, si rende sollecito della propria”. 

In questa prospettiva D. Michele Petruzzelli ha assunto l’onere che gli è stato affidato con tutta la trepidazione dell’uomo consapevole della sua fragilità, ma forte della promessa di Dio che non viene meno nel momento della prova. E così, prostrato a terra come nelle ordinazioni sacerdotali ed episcopali, “avvolto dalle litanie dei santi”, come ha ricordato Joseph Ratzinger a proposito della sua ordinazione sacerdotale e del sigillo finale, costituito dall’acclamazione del consacrante “non più servi ma amici”, D. Michele è apparso l’ultima cadenza di una lunga teoria di monaci e di abati, amici di Cristo, che dal 1011 hanno popolato e fatto crescere la Badia di Cava nella storia e nella santità.

Come D. Michele Marra, ultimo abate della Badia a ricevere la benedizione abbaziale nel 1969 dal Decano del Sacro Collegio dell’epoca, il cardinale Carlo Confalonieri, mitico segretario particolare di Pio XI, poi replicata dopo un decennio dal domenicano Lucas Moreira Neves, influente segretario della Congregazione per i vescovi, poi cardinale, prematuramente scomparso, in occasione della ricostituzione della diocesi abbaziale.

E questi due abati condividono, per singolare coincidenza, lo stesso nome pur nell’umana diversità di esperienze ricomposta dalla comune militanza sotto la Regola di S. Benedetto. D. Michele Marra è stato anche l’ultimo abate d’integrale formazione cavense, D. Michele Petruzzelli è il primo sublacense a diventare abate di un ex cenobio cassinese, il primo ad infondere nuova linfa nel corpo di uno dei più antichi e venerabili monasteri d’Italia.  

Nicola Russomando

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