Morire di burocrazia non è solo un modo di dire. Morire di burocrazia è spesso un dato di cronaca, un calcolo statistico speculare al suo connotato opposto: la vita d’inferno che lacci e lacciuoli del sistema Italia infligge a chi sia ancora tanto matto da intraprendere un’iniziativa economica. Soprattutto al sud, dove il ceto parassitario per eccellenza è quello allevato e pasciuto negli uffici pubblici più improbabili. A tacer del resto.
Morire di burocrazia è così diventata una «scelta» per Daniele Salvio (nella foto in alto, da www.ilciriaco.it) imprenditore gioielliere e creatore di modelli d’oreficeria, avellinese di neppure 30 anni: l’altro giorno ha sigillato porte e finestre con nastro isolante, ha sistemato pezzi di carbonella su un barbecue e gli ha dato fuoco attendendo la «dolce» morte, silenziosa, da monossido di carbonio. Da pochi giorni gli avevano chiuso il punto vendita di Mercogliano, a pochi chilometri da Avellino, per non meglio specificate irregolarità burocratiche. Ci penseranno gli inquirenti al termine delle indagini ad individuare l’ente «responsabile», se sarà possibile immaginarne uno: tra Asl, Comune e relativi uffici tecnici, urbanistici e commerciali, in ogni caso, non si dovrebbe impiegare troppo a ricostruire il drammatico iter.
Daniele in quel locale aveva investito tutti i suoi risparmi. Inutile descrivere il resto delle cose, le solite: i parenti che lo cercano, lui che non risponde al cellulare, amici sguinzagliati a far domande in giro, fino alla tragica scoperta del cadavere fatta dalla sorella e dalla zia. Ventinove anni aveva Daniele ma già una buona esperienza come creatore di gioielli. All’origine di tutto un’enorme passione per il proprio lavoro, l’atteggiamento giusto per tutto. Per farsene un’idea bastino alcuni passaggi di un’intervista rilasciata al magazine “HD” circa quattro anni fa, in cui il giovane -che a quel tempo gestiva un laboratorio nel centro di Avellino- sosteneva che «Per il futuro spero di crescere professionalmente, con l’ambizione di poter creare un marchio tutto mio. E’ difficile perché l’arte orafa qui in Irpinia non è molto diffusa, siamo rimasti in pochi. Le piccole botteghe artigiane stanno scomparendo ma sono convinto che la qualità, la dedizione e l’impegno siano fonte di ricompense future. Per questo ho intenzione di continuare questo cammino, magari cercando di collaborare con altri professionisti del settore. Vorrei contribuire a salvaguardare il mio mestiere dalle dozzinali produzioni industriali».
Ardori ed entusiasmi di un giovane imprenditore che intendeva fare sul serio, mettersi in gioco, produrre ricchezza e offrire, di conseguenza, lavoro. Un entusiasmo che non aveva ancora fatto i conti con gli uffici pubblici, una foresta selvatica dove le divinità adorate -oltre al 27 di fine mese- sono la carta a posto, il timbro, il regolamento, dove la regola è che l’ufficio non «dialoga» con il collega della porta accanto, il luogo in cui «questo non è di competenza nostra» ma neppure si sa di chi sia, della virgola fuori posto che non si può tollerare, il paradiso di impiegati spesso ignoranti che nessuno potrà mai spedire a raccogliere patate perché la repubblica italiana è «fondata sul lavoro». E si potrebbe continuare all’infinito.
Nel caso di Daniele gli avevano fatto prima investire tutto il danaro risparmiato (si parla di circa 75mila euro) salvo poi comunicargli dopo neppure dieci giorni un provvedimento di chiusura per carenza di certificazione adeguata. Certificazione adeguata? Roba -questa sì- da arrampicarsi sui tetti: ma non prima di aver trascinato con sé gli impiegati che finora s’erano sognati di farlo presente. E che continuano a rimanere al proprio posto: manco fossero magistrati.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 15 ottobre 2013)