Che il pontificato di papa Francesco si aprisse sotto un segno di rottura almeno nelle forme esteriori era circostanza di per sé evidente sin dalla sua presentazione sulla loggia delle benedizioni della basilica di S. Pietro in quella fredda sera del 13 marzo. Che tale singolarità si riflettesse anche nell’insegnamento della dottrina di cui il Papa per i cattolici è maestro supremo era conseguenza tutt’altro che certa.La recente intervista da Lui concessa alla storica rivista dei Gesuiti “Civiltà Cattolica”, (nella foto dal web il Papa con padre Spadaro, direttore della rivista) un tempo espressione dei desiderata della S. Sede, ne è la prova. Neppure la risposta agli editoriali di Eugenio Scalfari, pur oggetto tra i cattolici di un vivace dibattito circa il ruolo della coscienza individuale nella salvezza eterna, che comunque si muove in una solida dimensione cristologica, può rappresentare un motivo d’inquietudine nella prospettiva di dialogo franco e aperto con chi non crede.
L’intervista a Civiltà Cattolica, invece, è affermazione chiara di ciò che per papa Francesco è urgenza o priorità del momento, ovvero l’annuncio missionario. Detta così la circostanza appare in perfetta sintonia con la missio ultima affidata da Cristo alla sua Chiesa, annunciare il Vangelo a tutta la terra.
In realtà Bergoglio introduce una distinzione tra ciò che nel “pensiero cattolico” è scontato e la proposta dei suoi contenuti sotto forma d’insegnamento: “Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali”. Per pura esemplificazione tra questi insegnamenti morali Francesco ricorda aborto, matrimonio omosessuale e metodi contraccettivi.
Che la chiesa non sia chiamata a predicare cose nuove (nova), ma in modo nuovo (nove) era verità evidente già a S. Vincenzo di Lérins nel V secolo, autore ricordato nell’intervista per un passo del breviario latino citato dal Papa. E a questa esigenza sembra in qualche modo richiamarsi Bergoglio nella ricerca di un nuovo equilibrio per puntellare l’edificio morale della Chiesa. Resta però da capire se ciò può semplicemente inquadrarsi in una pastorale missionaria che, con l’annuncio della salvezza di Cristo, ritenga il resto dell’insegnamento naturale “conseguenza morale”. Su questo tema e con carattere di definitività si è espresso Giovanni Paolo II, che Francesco si appresta a proclamare santo nel prossimo concistoro del 30 settembre. Appena nel 1995, che per la Chiesa è un lasso di tempo quasi insignificante rispetto alla perpetuità del depositum fidei, con l’enciclica Evangelium vitae, Wojtyla affrontava direttamente la questione: “La parola e i gesti di Gesù e della sua Chiesa non riguardano solo chi è nella malattia, nella sofferenza o nelle varie forme di emarginazione sociale. Più profondamente toccano il senso stesso della vita di ogni uomo nelle sue dimensioni morali e spirituali. Solo chi riconosce che la propria vita è segnata dalla malattia del peccato, nell’incontro con Gesù Salvatore può ritrovare la verità e l’autenticità della propria esistenza”.
Parole chiare di un’enciclica che tratta della vita umana dal suo concepimento alla sua fine, che, unica nel suo genere, ha implicato la formula dell’infallibilità pontificia con il riferimento alla consultazione generale di tutto il corpo episcopale, verità pur ribadite ex sese, non ex consensu ecclesiae. Per Giovanni Paolo II annuncio missionario e insegnamento morale non sono distinguibili né in rapporto di causa-effetto, sono semplicemente materia di depositum fidei. Del resto non è Cristo stesso che ha imposto di “gridare la verità dai tetti” e di parlare sic sic, non non, mettendo in guardia dal di più che proviene dal male, dal demonio?
Una seconda questione, trattata nell’intervista, appare sotto il segno, se non della rottura, di sicuro del riduzionismo, ed è la questione liturgica, riproposta come centrale da Ratzinger: “Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile. Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità”.
Appare in questo caso evidente che la lettura offerta da Bergoglio del motu proprio Summorum Pontificum, con cui si liberalizza l’uso del messale preconciliare, è ispirata a riduzionismo. Manca ogni riferimento alla lettera di Benedetto all’episcopato mondiale con cui si fornivano le ragioni di tale provvedimento. Ragioni che non riposano su un’operazione “nostalgia” per assecondare la “particolare sensibilità” di alcune persone, semmai laudatores temporis acti, ma per recuperare all’esperienza della Chiesa il senso autentico dell’adorazione, appannata dalla “partecipazione esterna” di cui si è nutrito il novus ordo missae. Inoltre, nell’intervista si accenna ai pericoli di ideologizzazione del vetus ordo, con riferimento ai gruppi di tradizionalisti con la loro “pretesa” di seguire la Tradizione anche delle forme all’interno della Chiesa. Di fatto, il recente decreto della Congregazione dei Religiosi, assunto in forma specifica, ovvero in forma inappellabile perché avallato dal Papa, impedisce al solo Ordine dei Francescani dell’Immacolata la celebrazione della messa gregoriana. Fatto singolare, di rottura delle stesse norme del motu proprio, oltreché della legalità canonica, per un divieto che costituisce deroga al principio della libera facoltà del ricorso alla messa tridentina pur nell’ambito di una visita apostolica disposta per la Congregazione dei frati di Frigento, che non possono essere ricondotti a frange tradizionaliste.
Nell’intervista Francesco cita una bella massima di S. Ignazio, a cui ha ispirato il suo ministero di provinciale dei Gesuiti e, quindi, di Papa: non coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est (è divino non lasciarsi costringere da ciò che è più grande, ma farsi prendere da ciò che è più piccolo). Il Papa l’interpreta nel senso che bisogna privilegiare una misura minima nell’azione, ma, se questo si traduce anche nella riduzione della visione d’insieme, viene meno il senso della cattolicità, che è romana e quindi autenticamente universale.
Nicola Russomando
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