ARCHIVIOIl teatro è un gioco serio: parola di vedova avara

https://www.eolopress.it/index/wp-content/uploads/2013/07/Vedova_avara.jpg

Vedova avara

“L’avarizia è bramosia di vergognoso guadagno e l’avaro è un tipo che, in un banchetto, non ha pane a sufficienza e ne prende in prestito da un ospite sceso da lui. E, facendo le porzioni, dice che è giusto assegnare il doppio a chi divide e subito se lo attribuisce. E se commercia vino, lo dà annacquato all’amico e va a teatro con i figli solo quando gl’impresari fanno entrare gratis”. Se la lista delle caratteristiche dell’avarizia nei Caratteri di Teofrasto è ben più lunga e coglie la quotidianità dei comportamenti dell’antica Atene del IV secolo, la commedia, nella sua tensione al paradosso, questi caratteri li deforma e li ridicolizza fino all’estremo. E’ questo il caso della “Avara Vedova”, libero adattamento di Antonello De Rosa dell’Avaro di Molière, in scena nella IV rassegna teatrale “Il gioco serio del teatro”, che si tiene a Salerno dal 22 giugno al 21 luglio nel complesso di S. Sofia, ed è organizzata e diretta dallo stesso De Rosa.

 

Messa in scena con allievi di vari laboratori teatrali, nei quali, senza vincolo professionale, si scopre però la vocazione per il teatro, l’Avara Vedova trasmette tutta l’immediatezza di una rappresentazione per caratteri tipica della migliore commedia dell’arte all’italiana. E, se l’adattamento di Antonello De Rosa sta all’Avaro di Molière quanto Molière al Plauto dell’Aulularia, il capovolgimento dei sessi nei ruoli rende ancor più sapido l’intreccio con la provocazione, tutta teatrale, di maschi che recitano in personaggi femminili.

A cominciare dalla vedova e dalla governante, che, per la loro inverosimiglianza, non potrebbero risultare più paradossali all’insegna dell’ossimoro del “gioco serio”. E anche in questo la regia recupera quel tratto originario del teatro e della commedia dell’arte in particolare, per cui l’indifferenza di sesso nei ruoli è il presupposto naturale per la maschera. E maschere si rivelano tutti gli attori ben ricompresi nel loro personaggio, con caratterizzazioni che vanno dalla procacità espressiva della vedova e della governante alla stilizzazione dei giovani innamorati o dei comprimari, che si muovono tra dissimulazioni, compiacimenti ruffiani, agnizioni finali, tutte volte al trionfo, scontato per la commedia, dell’amore. Tuttavia, al centro della vicenda resta il pathos per il denaro, l’idolo della vedova a cui immancabilmente sacrificano gli uomini di ogni epoca. Diecimila ducati aurei sotterrati in giardino, sottratti, recuperati forse, a sigillo della felice conclusione della vicenda con le giuste nozze delle figlie della vedova.

“E sorde, e sorde, tu muore dannata tu e sorde, possibile che tenite tutti ‘ncapa a stessa cosa: e sorde! E ched’è ‘na fissazione? E penzate a quacche ata cosa ogni tanto”: è uno stralcio di dialogo tra la vedova e la governante per la spesa del banchetto, che in filigrana rappresenta la sintesi dell’ossessione dominante tra gli uomini, mammona di evangelica memoria, nel teatro autentico della vita. Notevole anche il pastiche linguistico, tra napoletano e lingua, che in qualche modo sottrae l’ambientazione ad un’asettica atemporalità per collocarla in una Napoli esplicitamente evocata e in un Seicento, che, prima che secolo, è una clausola di stile e a cui costumi e musiche, con chiare digressioni nella contemporaneità, conferiscono quell’aura di perpetuità, propria dei vizi umani, resi emblematici dal teatro. In ogni epoca.

Nicola Russomando

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

Redazione Eolopress

Leave a Reply