ARCHIVIOSpariscono i fondi pubblici: indagata intera famiglia Pd

admin27/06/2013
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Palazzo dei normanni

Formazione professionale, croce e delizia della politica. Fateci caso: gli assessorati regionali alla Formazione, specie nel Mezzogiorno, sono tra quelli più ambiti seppur tra i meno platealmente combattuti. Chi li ha gestiti sul piano politico-amministrativo per un tempo sufficiente, alle elezioni successive è stato quasi sempre riconfermato, anche al di là del risultato del proprio schieramento (nella foto il palazzo della Regione Sicilia).

 

E’ successo in Campania, in Puglia, in Veneto ed altrove. Inutile scendere in dettagli ulteriori, la spiegazione è intuitiva: nel bene e nel male. Così come altrettanto spesso, laddove si è gestita la formazione professionale, si fanno i conti con grane giudiziarie, indagini e rogne di ogni tipo. Prendi la Sicilia, l’ultima è di un paio di giorni fa. A Messina la locale procura della repubblica ha acceso i fari puntandoli su undici persone, accusate tutte di associazione a delinquere finalizzata alla truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche e al peculato. Non proprio una robetta minore. In pratica si ipotizza che il fiume di danaro erogato dalla «repubblica autonoma di Trinacria» nel corso degli ultimi sei anni (parliamo cioè dal 2007 al 2013) in favore di non precisati enti di formazione, in realtà nascondesse il classico meccanismo che ha caratterizzato almeno la metà dell’intera comparto affidato alle Regioni.

Vale a dire, enti inesistenti o esistenti sulla carta, strutture fittizie od operative ma con corsi farlocchi oppure concepiti ad hoc per raccattare qualche docente o «tutor» -come si chiamano oggi- cui in tasca resteranno poche centinaia di euro: che poi i corsisti si formino o meno, ottengano o no il rimborso ufficialmente dichiarato o previsto nei capitolati delle gare, questo non è affare che interessi più di tanto. Almeno fino a quando non entra a gamba tesa la magistratura. Come nel nostro caso siciliano che, ancora una volta, si qualifica per il coinvolgimento di pezzi di apparato e rappresentanza istituzionale del Partito democratico. Sono infatti coinvolti il parlamentare nazionale messinese Francantonio Genovese, il cognato e consigliere regionale, Franco Rinaldi, le rispettive mogli dei due, Chiara e Giovanna Schirò, e poi la sorella di Genovese, Rosalia, il nipote Marco Lampuri, e Nicola Bartolone, Graziella Feliciotto, Salvatore Natoli, Roberto Giunta e Concetta Cannavò. Una foto di famiglia in cui i soldi uscivano dal «marito» per entrare in quelli della moglie, del cognato o del parente del parente: con la differenza che il «marito» in questo caso era il pubblico erario per interposta persona.

Tutte condizioni specifiche che aggiungono guai al guaio e che i magistrati messinesi, spintisi già fino a Palermo seguendo le impronte della presunta truffa associata, cercano di inserire in un progetto investigativo unitario. Perché gli inquirenti non scavano soltanto per capire quanto di quel fiume di danaro sia finito nelle tasche improprie di enti non riconosciuti oppure vivi soltanto formalmente o se i corsi siano stati realmente effettuati: c’è anche da dipanare la matassa della compravendita o della cessione dei rami d’azienda tra un ente e l’altro, la compatibilità delle procedure con i regolamenti statutari, la legittimità nell’erogazione dei fondi, oltre che l’eventuale elusione della normativa fiscale che necessariamente involge il ragionamento. Roba che a metterci le mani nel resto d’Italia si rischierebbero casi analoghi all’epidemia di “Rimborsopoli” che non ha finora risparmiato nessuno. 

Messina era territorio ampiamente «bersaniano» prima dell’eclissi del figlio del benzinaio romagnolo: domenica scorsa la scossa del «civismo militante» ha determinato la vittoria di un candidato sindaco della lista “No Ponte”, lasciando anche il Pd completamente di stucco. 
Almeno quanto la dichiarazione rilasciata alla Gazzetta del Sud dal capogruppo del Pd all’Ars Baldo Gucciardi: “Non commento mai le vicende giudiziarie, non sono per un garantismo peloso né per urla di scandalo. Ho sempre sostenuto, e lo confermo, che quando interviene la magistratura il sistema dei controlli ha fallito. La questione morale è sempre aperta”. Eccone un altro che non commenta. Commentando.

Peppe Rinaldi (dal quotidiano”Libero” del 27 giugno 2013)

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