Se continua così tra un po’ qualcuno dovrà installare una macchinetta stacca-biglietti per dirigere il traffico di quanti vengono presi, sbattuti in carcere per poi essere riconosciuti innocenti. Galere da cui si viene liberati non sempre con tante scuse ma di certo scaricando il costo dei risarcimenti sulle spalle di tutti. Il trend, negli ultimi anni, appare in salita: un problema serio, di fondo, ci sarà.
Libero ha registrato almeno un paio di casi recenti: uno a Foggia e l’altro a Caltanissetta. Partiamo dalla Puglia riassumendo la storia di Michele La Fratta, 67 anni, originario di San Giovanni Rotondo, il paese “di” Padre Pio. Nel 1991 viene incarcerato con l’accusa di minacce ed estorsione di 50 milioni di lire in danno di un imprenditore edile che stava lavorando proprio ai cantieri di “San Pio”. L’uomo, in un primo momento, si era rifiutato di pagare ma grazie ad alcuni avvertimenti dinamitardi, capitolò nel volgere di breve tempo. E i 50 milioni li dovette tirar fuori. I fatti si erano verificati l’anno precedente. Sette persone vengono arrestate. La Fratta, mentre era in attesa del processo, resta dentro un anno intero. Il processo va avanti e arriva alla conclusione del primo grado la bellezza di quindici anni dopo. Infatti nel 2005 il tribunale di Foggia lo condanna a sette anni di reclusione. Ovvio il ricorso in Appello che, passati altri cinque anni, confermerà la condanna.
Siamo così arrivati al 2010. Resta la Cassazione, ultima speranza. La Suprema Corte infatti annullerà tutto con rinvio, cioè ordinando la ripetizione del secondo grado per alcuni profili -si presume- di illegittimità formale e sostanziale. Com’era intuibile, il «nuovo» processo, conclusosi soltanto pochi giorni fa, assolve definitivamente La Fratta per “non aver commesso il fatto”. Ventitré anni trascorsi dal momento dell’arresto, durante i quali un cittadino (indipendentemente da chi sia, è il principio che conta) è rimasto appeso ai tempi della giustizia italiana: alla fine non aveva neppure commesso il fatto per il quale era stato sbattuto in gattabuia. Il suo avvocato, Massimo Roberto Chiusolo, ha annunciato di aver già pronta la pratica per il risarcimento da ingiusta detenzione del suo cliente. Il minimo che si possa fare, sperando di trovarvi almeno qualche soldo residuo.
Dalla Puglia scendiamo in Sicilia. La procura di Enna nel 2010 ordina un’operazione antimafia (il blitz chiama «Triskelion») e diverse persone legate alle cosche mafiose del centro dell’isola vengono incarcerate. Tra esse il ragioniere del comune di Cologno Monzese (Mi) Giovanni Meo, 59 anni. L’uomo è originario proprio di quella zona della Sicilia, probabilmente conosceva qualcuno degli «uomini d’onore», come spesso capita a chi vive nel Mezzogiorno. Sta di fatto che viene prelevato dal Gico della Finanza all’alba, messo ai ferri e spedito in galera a Monza: di qui passerà alla casa circondariale “Malaspina” di Caltanissetta. Per gli inquirenti della direzione distrettuale antimafia era uno dei referenti dei boss in Lombardia. E rimarrà tale per tre anni, due mesi e venti giorni: esattamente il periodo in cui è stato trattenuto in galera. Il punto è che era innocente. Infatti, circa una settimana fa, la Corte d’Appello nissena lo scagiona definitivamente «per non aver commesso il fatto», e sarà l’unico assolto tra gli arrestati nel blitz scattato nel 2010.
Un minuto in galera, specie se si è incolpevoli, dura un’eternità: figuriamoci tre anni, due mesi e venti giorni, che non è neppure il periodo record della nostra speciale classifica tutta italiana. Chissà quando (e quanto) arriverà anche per lui il risarcimento. Sempre che quel genere di inferno patito possa ottener ristoro.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 4 giugno 2013)