Tra i vari interventi di commemorazione del cinquantenario del Concilio Vaticano II non va certo taciuto quello che lo stesso Benedetto XVI ha offerto al clero di Roma nell’annuale incontro d’inizio quaresima. Intervento autorevole sotto il duplice profilo del testimone dei fatti e dell’interprete assurto a successore di Pietro. Ratzinger, infatti, ha trattato l’argomento “non in un lungo ed elaborato discorso”, come meritava, a suo dire, la materia, ma in un discorso a braccio, sul filo dei ricordi, che, ancora una volta ha consegnato l’immagine, potente, di “un papato da ascoltare e da leggere, piuttosto che da vedere”, come ebbe a dire, con toni profetici, Messori, all’indomani della sua elezione a Papa. E di cui avvertiremo l’immediata mancanza, temperata solo dalla consolante certezza del suo immenso apporto teologico e pastorale, pietra miliare per la Chiesa.
Benedetto XVI ha dunque trattato le vicende del Vaticano II, tra concilio virtuale dei media e concilio reale che solo ora inizia a delinearsi, nei diversi ambiti tematici in linea con le consegne delle quattro costituzioni dogmatiche prodotte dall’assise e con la loro contestualizzazione anche nelle sollecitazioni umane dei vari ambienti culturali di riferimento. Con una lettura singolare per un Papa, che al dato immutabile del dogma, espressione di una dimensione eterna, associa l’elemento culturale come sua comprimaria motivazione. Come nel caso della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, sollecitata da vari settori dell’episcopato, trai i più disparati, da quello statunitense per il loro melting pot anche religioso, a quello arabo per i rapporti con l’Islam e lo stato di Israele.
Così, l’analisi si è sviluppata sulla riforma liturgica della Sacrosanctum concilium, sulle prospettive ecclesiologiche della Lumen gentium, sui criteri di lettura della sacra Scrittura della Dei verbum, infine sui rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo della Gaudium et spes.
In effetti l’ossatura del Vaticano II è tutta in queste quattro costituzioni, pur senza voler omettere gli altri documenti, e a questi Ratzinger si è rifatto nella reale prospettiva, a cui ci ha abituato, di continuità col magistero precedente. In particolare con la Lumen gentium, che ridisegna il modulo per la Chiesa della societas perfecta, sanzionato dal Concilio di Trento, e che, con l’introduzione della formula “Popolo di Dio”, sembra capovolgere il rapporto piramidale tra clero e laici. Novità entrata di sicuro nella prassi ecclesiologica, come dimostrato dalla disposizione del libro II del Codice di diritto canonico titolato de Populo Dei. Questa lettura di apparente rottura è dal Papa ricollegata all’incompiuta definizione del Vaticano I voluto da Pio IX, concilio che, interrotto nel 1870 per l’occupazione di Roma da parte dei Piemontesi, si limitò al “frammento” dell’infallibilità papale senza potere definire compiutamente tutta la costituzione della Chiesa. A questo provvede Pio XII nel 1943, in piena II guerra mondiale, con l’enciclica Mystici corporis, che riprende l’immagine paolina del “Corpo mistico di Cristo”, di cui tutti i credenti sono le membra, del passato, del presente come del futuro, e stabilisce che per aversi partecipazione organica siano necessari battesimo, retta fede, appartenenza all’unità giuridica della Chiesa. Criteri giudicati nella riflessione teologica successiva comunque restrittivi e che aprono alla definizione conciliare di Popolo di Dio. E qui Ratzinger, a giusto titolo, può vantare una partecipazione diretta alla “preistoria del Vaticano II”, quando da giovane dottorando fu incaricato dal suo “maestro di teologia” all’università di ricercare i fondamenti scritturistici del lemma. E il risultato della ricerca si rivela sorprendente, se solo si considera che “il termine popolo di Dio appare sì nel Nuovo Testamento molto di frequente, ma solo in pochissimi posti (in fondo solo due) indica la Chiesa, mentre nel suo normale significato rinvia al popolo di Israele”.
La conclusione è che “nel Nuovo Testamento popolo di Dio non è una denominazione della Chiesa”, ma, in un’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento, “può indicare il nuovo Israele”, cioè i credenti in Cristo, il cui insieme è contrassegnato con il termine greco ekklesía, da assemblea convocata a Chiesa. Questo Ratzinger lo scriveva nel 1986 da teologo e prefetto dell’ex Sant’Uffizio, lo ha ripetuto anche oggi da Papa quando ha fatto riferimento al Popolo di Israele, goim, che si muove solitario nella Storia, ma anche nell’intima certezza di quella primogenitura in Abramo destinata ad ereditare tutta la terra. Un’immagine questa, come quella odierna della “salita al monte”, che si addice a questo Papa, nella sua umile grandezza, “diventato per noi figura di Patriarca”, come ebbe a scrivere lui stesso del cardinale Stickler, la cui solitudine al vertice del pontificato romano, fatta spesso di travisamenti della sua lezione e della sua opera, è la testimonianza più chiara del martirio a cui è chiamato il successore di Pietro, “capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale”.
Non ci si può meravigliare allora che, impunemente, un membro dello stesso collegio apostolico, ancorché vescovo emerito, mons. Bettazzi di Ivrea, già ausiliare del cardinale Lercaro rimosso dalla Bologna postconciliare da Paolo VI, possa giudicare Benedetto XVI dalle colonne di Famiglia Cristiana n. 7/2013, come “un uomo di studio, che veniva portato in giro e anche esposto a gaffe, come quando lo convinsero a togliere la scomunica ai lefebvriani e il giorno dopo costoro negarono l’esistenza della Shoah, o dissero che non si sentivano obbligati a seguire il concilio Vaticano II perché si trattava di un concilio pastorale”.
Una bella palata di terra sulla verità, come commenterebbe l’autore del Gattopardo, tanto più singolare se proviene da un vescovo e per un atto, quale la revoca della scomunica ai lefebvriani tra i più organici e meditati di tutto il pontificato benedettino. Di questo si occuperà la storia. A Bettazzi, a proposito dell’infelicissima espressione “portare in giro” , si può solo ricordare che nella profezia del martirio fatta da Gesù a Pietro si legge nel Vangelo di Giovanni: “Quando eri giovane ti cingevi e andavi dove volevi, quando sarai vecchio, stenderai le tue mani, un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi”. E questa strada Benedetto XVI l’ha percorsa sino in fondo con l’intrepida consapevolezza, teorizzata e vissuta, di doversi conformare il più possibile a Colui la cui potestà vicaria è stato chiamato ad esercitare qui sulla terra.
Nicola Russomando
© RIPRODUZIONE RISERVATA