ARCHIVIOLa ex gli intesta un sito «omo» per avere un divorzio più ricco

admin16/01/2013
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divorzio

Non ci sono solo i processi lunghi ed estenuanti. Non c’è soltanto il virus della giustizia «politicizzata» o «ad orologeria» e altre diavolerie di un sistema vicino al collasso definitivo. C’è anche un mondo meno visibile dei luoghi comuni ma altrettanto farraginoso ed ostile, spesso offerto da bizzarre decisioni assunte dai giudici su casi specifici. I divorzi, ad esempio. Sentite questa storia, successa al tribunale di Napoli diversi mesi fa (ne parla l’Adiantum, associazione per la tutela dei minori).

 

Lui è un noto commercialista, spesso consulente tecnico degli uffici giudiziari. Il suo matrimonio, dal quale è nata una bambina, va in crisi, nulla di strano, succede spesso. La moglie lo trascina dinanzi al giudice, decisa ad incolparlo per la fine di un legame che appariva a prova di bomba: solita storia. La responsabilità, si sa, gioca un ruolo determinante nelle cause di divorzio, stabilire chi è stato l’artefice della degenerazione del rapporto significa quanti soldi il coniuge «debole» ha diritto ad avere, in quale casa deve abitare, quante volte la prole può o deve essere frequentata dal partner colpevole.

Nel nostro caso c’erano condotte reiteratamente adulterine da parte del commercialista, oltre che una sessualità sfrenata e promiscua: in parole povere, l’uomo -secondo quanto stabilito dal primo giudicante del caso- era donnaiolo ma non disdegnava di accompagnarsi anche con soggetti dello stesso sesso. Un «ambidestro» si direbbe. Anzi: si dice, visto che agli atti della causa c’è la precisa deliberazione del magistrato che scrive: “Anche se non appaiono sufficientemente provati la gravissima condotta adulterina ed i comportamenti promiscui del marito, come denunciati dalla moglie sulla base di quanto rilevato su un sito internet apparentemente a lui intestato, non si può allo stato che nell’interesse esclusivo della figlia di anni sei affidare quest’ultima alla madre”. Per il commercialista non c’è partita, il giudice (una donna) lo stanga senza pietà e lo «condanna» a pagare alla moglie la modica cifra di quattromila euro mensili, così suddivisi: millecinquecento per la bambina e duemilacinquecento per l’ex moglie, titolare del diritto a non vedersi diminuito il precedente tenore di vita solo perché il marito era preda di questi stravaganti vizietti. Inutile dire che anche la casa di proprietà è stata destinata alla signora.

Delle avventure galanti e tradizionalmente infedeli del commercialista non si ha notizia, ma quel che all’uomo proprio non andava giù era il fatto che, non solo fosse «parzialmente gay» ma che addirittura fosse animatore di un sito internet a luci rosse specializzato. Non poteva passarci su, soprattutto perché questa circostanza -peraltro affrontata con evidente approssimazione dal magistrato visto che nella sentenza stessa scriveva di mancanza di certezza del fatto specifico- era alla base della scelta del tribunale. Decide di andare a fondo sporgendo querela contro ignoti: lui e quel “www.homo.com” non avevano niente a che vedere. La Polizia postale si mette in moto e dopo un anno e mezzo di indagini si viene a capo del fattaccio: erano stati la moglie ed il suo avvocato ad organizzare il tutto, avevano inserito i dati personali dell’uomo nel server del sito di modo che il marito figurasse come amministratore ed animatore degli incontri a sfondo omosex. La moglie viene denunciata, indagata e addirittura rinviata a giudizio per diffamazione, sottrazione e falsificazione di documenti (art. 81 cpv., 485 e 595 cp). Stessa sorte per il legale della donna, partecipe del progetto. I relativi processi, nel frattempo, si sono sovrapposti a quello civilistico.

Dinanzi a tale e tanta novità uno pensa: bene, con la prova certificata che si trattò di una sorta di congiura contro il marito, il giudice rivedrà la decisione, consentirà al padre di vedere la figlia con maggiore libertà e soprattutto il trattamento economico sarà rimodulato sulla base delle nuove acquisizioni.

In un paese normale si, andrebbe da sé: nel sistema giustizia italiano invece le cose seguono una logica diversa. Il commercialista napoletano (la cui identità, ovviamente, non va rivelata) nonostante il tentativo evidente di ostacolare la genitorialità paterna mediante reato penale, deve comunque pagare i 4mila euro alla moglie così come nessuna variazione è stata possibile ottenere per le altre «pene» accessorie decise con la sentenza di divorzio, salvo minimi allungamenti dei tempi di permanenza della figlia col papà.

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 16 gennaio 2013)

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