ARCHIVIOLingua latina, la sfida essenziale della Chiesa

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messa in latino

 

I cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II rappresentano un lasso di tempo adeguato per iniziare quel processo di storicizzazione dell’evento ecclesiale più importante del XX secolo auspicato dallo stesso Pontificio comitato per le Scienze storiche. Soprattutto per demitizzare l’aura che da sempre accompagna una tale ricostruzione in sede storica specie tra gli assertori della cosiddetta “ermeneutica della discontinuità”, ovvero tra coloro che vedono nel Concilio un segno di rottura con la Tradizione bimillenaria della Chiesa.

 

Su questo punto, autorevolmente è intervenuto Benedetto XVI in persona con il suo, ormai celebre, discorso alla Curia romana del Natale 2005. Vi ritorna ora, indirettamente, con un motu proprio destinato a riaprire discussioni giammai sopite sull’argomento principe della novità conciliare, la sostituzione sistematica del latino con le lingue vive nella formazione dei chierici e nella liturgia della Chiesa. E’ infatti dello scorso 10 novembre, memoria di S. Leone Magno, tra l’altro esponente aulico del filone delle lettere latine cristiane, la promulgazione del motu proprio Latina lingua, con cui Benedetto XVI ripropone la questione della centralità della conoscenza del latino per la formazione nei seminari e per la conoscenza delle stesse fonti del pensiero teologico e filosofico.

Il tutto a cinquant’anni altresì da un altro documento magisteriale controverso, la costituzione apostolica Veterum sapientia, con cui Giovanni XXIII, alla vigilia dell’apertura del Concilio, di fatto sottraeva al dibattito sinodale la questione dell’insegnamento teologico in latino per affermarne l’imprescindibilità con tutta l’autorevolezza di un pronunciamento papale. Che la costituzione avesse fallito il suo obiettivo alla luce degli stessi sviluppi conciliari fu constatazione ben presente alla riflessione di uno dei testimoni della sua genesi, il cardinale salesiano, dottissimo canonista, Alfons Stickler, da Benedetto XVI definito “figura di patriarca” in occasione del 70° della sua ordinazione sacerdotale. Questi, ricostruendone le vicende in occasione del venticinquennale, addebitava la causa del fallimento al fatto “che era stato chiesto troppo a tutti senza le opportune distinzioni”, tanto alle chiese dei Paesi di radicata tradizione umanistica, quanto a quelle di nessuna ascendenza classica. La novità del documento di Papa Ratzinger sembra risiedere proprio in questa constatazione, ma formulata ex contrario. Si legge infatti nel preambolo: “proprio nel nostro mondo, nel quale tanta parte hanno la scienza e la tecnologia, si riscontra un rinnovato interesse per la cultura e la lingua latina, non solo in quei continenti che hanno le proprie radici culturali nell’eredità greco-romana. Tale attenzione appare tanto più significativa in quanto non coinvolge solo ambienti accademici ed istituzionali, ma riguarda anche giovani e studiosi provenienti da nazioni e tradizioni assai diverse”.

Del resto, a conferma di un tale assunto, basterebbe il semplice dato dei numerosi news groups in lingua latina circolanti sul web per convincersi di quanto fondata sia la premessa del Papa. Un dato, tuttavia, che vede la Chiesa cattolica -e quella italiana in particolare- in totale arretramento, se è vero, come si legge sempre nel preambolo, che “nella cultura contemporanea si nota tuttavia, nel contesto di un generalizzato affievolimento degli studi umanistici, il pericolo di una conoscenza sempre più superficiale della lingua latina, riscontrabile anche nell’ambito degli studi filosofici e teologici dei futuri sacerdoti”. E il pericolo si manifesta tanto più grave quanto più incide su quella riscoperta delle fonti, riproposta dal Concilio come premessa di una rinnovata pentecoste, per cui “anche ai nostri tempi, la conoscenza della lingua e della cultura latina risulta quanto mai necessaria per lo studio delle fonti a cui attingono, tra le altre, numerose discipline ecclesiastiche quali, ad esempio, la teologia, la liturgia, la patristica ed il diritto canonico, come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II”.

Queste le premesse da cui muove la decisione di Benedetto XVI di dare vita all’Accademia Pontificia di Latinità, che, sostituendo la fondazione Latinitas già istituita da Paolo VI nel 1976, è mandataria, specificamente, del compito “di favorire la conoscenza e lo studio della lingua e della letteratura latina, sia classica sia patristica, medievale ed umanistica, in particolare presso le Istituzioni formative cattoliche, nelle quali sia i seminaristi che i sacerdoti sono formati ed istruiti” e di “promuovere nei diversi ambiti l’uso del latino, sia come lingua scritta, sia parlata”. Già la Veterum sapientia aveva posto in risalto tre condizioni essenziali per la promozione del latino, ovvero buoni maestri, metodo adeguato e tempo sufficiente. A questi criteri si richiama anche Benedetto XVI quando, tra le finalità istituzionali dell’Accademia, pone quella primaria di “educare le giovani generazioni alla conoscenza del latino, anche mediante i moderni mezzi di comunicazione”, nel presupposto implicito dell’individuazione di tali condizioni previe.

Che questa sfida sia essenziale per la Chiesa e non un semplice trastullo intellettuale semmai per laudatores temporis acti, come pure ingenuamente si potrebbe congetturare, è confermato da molti argomenti. Non ultimo quello che poggia sull’espressione plastica dell’idea di cattolicità attorno ad una lingua che la costituzione formale della Chiesa, espressa nei canoni 249, circa l’obbligo d’insegnamento del latino nei seminari, e 928 che prevede la celebrazione eucaristica in lingua latina o, in subordine, in altra lingua approvata, considera connettiva della sua stessa essenza. Benedetto XVI, prima con il motu proprio Summorum Pontificum per la liberalizzazione del Messale tridentino per cui neppure è concepibile traduzione in lingua corrente, oggi con Latina lingua affronta, con inaudito coraggio, quella che nella Chiesa stessa è considerata, riduttivamente, una battaglia di retroguardia. Giova, su questo tema, riprendere quanto scritto da Alfons Stickler nell’articolo richiamato di fronte ad una manifestazione di fedeli in difesa del latino, proprio al sinodo sui laici del 1987: “Questi fedeli sono per me l’espressione del sensus Ecclesiae. Perciò, nonostante la peggiore delle decadenze anche presso il clero, possiamo essere sicuri che la vitalità perenne della Chiesa non solo salverà la fede unica, ma anche la sua espressione più universalmente riconosciuta nella lingua latina. La perenne vitalità della Chiesa consente di conservare non solo l’unità della fede ma anche l’unità dell’espressione, funzione che i Papi hanno sempre riconosciuto alla lingua latina ”.

Laici chiamati, in ultima analisi, a “supplire alle deficienze del clero”, come dichiarato dallo stesso presule. Per dirla in sintesi e in latino con Giovanni XXIII, inventore di quel Concilio cui si richiamano i detrattori del latino ecclesiastico, “neque solum universalis, sed etiam immutabilis lingua ab Ecclesia adhibita sit oportet” (la Chiesa deve usare una lingua non solo universale, ma anche immutabile). Nessuno, neppure Benedetto XVI, pretende che nella Chiesa si parli latino, né si mette in discussione l’ingresso delle lingue vive nella liturgia pur con tutti i problemi dell’autenticità delle traduzioni dall’edizione tipica latina, ma la perdita sistematica del latino nella vita della Chiesa è iattura (iactura in latino è tanto perdita quanto disfatta, ndr) che limita la stessa partecipazione attiva al Mistero, pur tanto invocata dagli oltranzisti della riforma liturgica, con il latino che resta, all’inverso, “la porta che spalanca a tutti le verità di fede ricevute da sempre e l’interpretazione dei monumenti della disciplina ecclesiastica”. Potenza di una lingua, seppure, troppo semplicisticamente, archiviata come morta! Nicola Russomando

(Pubblicato in “Ascolta”, periodico degli ex alunni della Badia di Cava, n. 184)

Redazione Eolopress

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