Eccezionalmente l’arcivescovo di Salerno Andrea Bellandi nella sua omelia per la messa della V Domenica di Quaresima – I Domenica di Passione per il rito antico – ha deciso di omettere il richiamo alle letture proposte per concentrarsi sulle parole di papa Francesco nello straordinario rito penitenziale di venerdì 27 marzo. È noto che il discorso del Papa in questa occasione ha avuto risonanza mondiale e, meditando sull’episodio della tempesta sedata del cap. IV del Vangelo di Marco, ha riproposto il tema della paura innanzi al pericolo di morte e la questione della fede di cui dare testimonianza innanzi alla prova. Nei commenti che in generale se ne sono dati si è voluto mettere in maggior risalto la “dimensione orizzontale” delle parole di Francesco per cui “essere sulla stessa barca” comporta il fatto che “nessuno si salva da solo”. E questa volta la tempesta non è rappresentata dai marosi del lago di Tiberiade cui Gesù impone di tacere e di “mettere la museruola”, bensì dall’insidia invisibile di un virus letale.
Vero è che il discorso investe anche questo aspetto particolarmente caro alla teologia del popolo di Francesco, ma, in termini ancor più decisi, culmina nell’appello a ridefinire l’ordine di priorità al cui vertice ci sia Dio. E quest’aspetto è stato sottolineato da Bellandi che ha parlato di quest’ordine di priorità come di “un frutto eventuale” da cogliere nell’occasione pur tragica della pandemia. In particolare, il presule ha voluto rimarcare questo passaggio del discorso del Papa: «La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità». Con il suo classico calembour linguistico Francesco ha usato termini medici da trasfondere nell’oblio della memoria che, nel caso di specie, è l’oblio della fede o della sua sostituzione mediante “abitudini salvatrici”.
Tuttavia, se queste affermazioni attingono al pensiero papale per cui il popolo stesso, nelle sue tradizioni, è luogo di per sé teologico (da ricordare in questo senso la sua concezione della pietà popolare, con cui “il popolo evangelizza continuamente se stesso”), non è fuor di luogo riferirle alla stessa Chiesa. È da un cinquantennio a questa parte che la Chiesa ha progressivamente rivisto il suo ordine di priorità per concentrarsi sulle agende sociali e politiche con appannamento della preghiera di adorazione da rivolgere necessariamente a Dio. È il tema dello “unum necessarium” esplicitamente richiamato nel discorso papale e al centro di tutta la liturgia penitenziale.
Perché, se le parole del Papa sono state quelle più direttamente percepite seppure variamente commentate, è quella che può sembrare cornice liturgica la vera sostanza dell’iniziativa papale. A dominare tutta l’azione liturgica un inno penitenziale, «Parce Domine, parce populo tuo, ne in aeternum irascaris nobis», che sta a dire “Risparmia, risparmia il tuo popolo, Signore, che la tua ira non si manifesti in eterno su di noi”. Ora se si prega con queste parole Dio, si deve pure ammettere che, per quanto l’immagine non coincida con l’idea zuccherosa di una misericordia divina “a buon mercato”, esiste anche la realtà dell’ira divina così presente nei Salmi detti “imprecatori”. Sarà forse anche l’immagine del Dio dell’Antico Testamento contrapposta illogicamente al Dio che si è rivelato in Gesù Cristo nel Nuovo, ma, se in ogni caso se ne confessa l’onnipotenza, non si potrà dubitare che anche l’attuale momento oscuro sia parte di un disegno divino. È quello che il Papa intende quando afferma che «questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai».
La forza di queste parole e dei gesti della liturgia penitenziale ha sollecitato le riflessioni di mons. Bellandi nella dimensione surreale di una cattedrale “a porte chiuse”, segno ancor più eloquente del momento di difficoltà a comprendere l’azione di Dio nella storia. Con l’ulteriore aggravio di chiese chiuse a Salerno e in alcune altre diocesi anche per momenti personali di preghiera nell’esercizio di un’interpretazione ancor più zelante di quanto, pur grave, emanato da fonte statale.
*Da “Il Quotidiano del Sud” del 1 aprile 2020