BazArtIN CITTA'In memoria di Tommaso Guarino, artista della melanconia

https://www.eolopress.it/index/wp-content/uploads/2020/02/Guarino_tela.jpg

A due anni dalla scomparsa non si può che rendere omaggio ad uno degli ultimi “sognatori” dell’arte contemporanea italiana, ad un artista che attraverso il linguaggio pittorico e la parola scritta ha saputo raccontare e raccontarsi.
La sua pittura, apparentemente semplice e ripetitiva, è più complessa di quanto possa sembrare: è nei ritratti femminili, nella frontalità delle figure, nella profondità degli occhi che l’artista amava rappresentare in forma astratta ovunque, anche nei piedi, nelle mani e nei seni nudi, che si può leggere quella “melanconia”, quella “tristezza metafisica” di cui parlò anche Rossana Bossaglia, storica del Liberty e nome tra i più rinomati nel panorama della critica d’arte italiana.
Le donne di Guarino ci guardano come a comunicarci una condizione esistenziale di eterna “attesa” come lo stesso diceva “di un sogno, di un amore, della felicità”. Che si tratti di donne benestanti o di fanciulle dai tratti arabeggianti in tutte è evidente la sublimazione della figura femminile in una dimensione arcaica, “popolare e raffinatissima” che la critica avvicinò ai modelli iconografici dell’arte messicana, peculiarità della pittura del grande Diego Rivera
Continuano a fissarci le donne di Tommaso Guarino, raccontandoci di un mondo, di una umanità variegata e complessa, ma mai slegata dalla propria identità, dalle origini a cui tutto conduce. Il ricordo di un Sud post bellico, della sua terra natìa, scrigno di riti e dialetti, hanno plasmato l’uomo e l’artista Guarino che, seppur lontano dagli affetti e ramingo fin dalla tenera età, non ha mai nascosto la sua infanzia difficile di “fanciullo ribelle”, né il suo profondo desiderio di appartenere ad una comunità, di “ritornare al suo paese” come il suo Pantaleo, “malato di nostalgia” protagonista del suo ultimo lavoro di narrativa, edito da Oedipus.

E’ ad Eboli che per sua volontà riposano le spoglie, dopo aver vissuto per quarant’anni a Milano, dividendosi tra pittura, drammaturgia e recitazione.
Siamo negli anni ’70 quando, dopo aver frequentato scuole di pittura e studi di artisti parigini con esposizioni presso la galleria Roche di Parigi, si stabilisce a Milano entrando in contatto con scrittori, filosofi e commediografi. Tra i fondatori del Teatro Officina di viale Monza nella grande metropoli, Tommaso collaborò alla stesura di testi e spettacoli, condividendo con Massimo De Vita (direttore artistico) vent’anni “di dura resistenza culturale e teatrale”. Il ricordo della sua profonda umanità, della sua discrezione e disponibilità, della forza del tono e del tratto, della sua compenetrata malinconia, sono ancora vivi in quanti lo hanno incontrato e conosciuto, tra questi anche Daniela Airoldi Bianchi, che al suo fianco ha calcato le scene del teatro Officina nella prima di “Faccia scura” (2012), racconto autobiografico in cui tra le macerie del dopoguerra Guarino parla di braccianti e caporali, di povertà e di fame, di donne sottomesse o languide nell’osservare l’avventore, cariche di ardore e affetto nell’attesa di mariti, fratelli, padri emigrati chissà dove, e poi del boom economico e dell’approdo nella grande metropoli: Milano, “la città dai mille volti e dalle molte espressioni”, come lui amava definire il luogo che lo aveva accolto e protetto.
Nei suoi testi teatrali ritratti poetici e sublimi di un’umanità disperata, come in Quannu nascette lu padrone (1978), Accussì lu destine vaje (1982) Fimmina e sulastru (1987), ma è in Faccia scura che traspare il marchio indelebile della miseria vissuta e di quelle donne del Sud, superbe e potenti, simbolo di una profonda sensibilità, di un sotteso desiderio di riscatto e di una religiosità barocca che lo affascinava, lo ispirava, lo confortava. Dopo aver attraversato con i suoi quadri lo stivale dal Trentino alla Sicilia ospite in mostre ed eventi, negli ultimi anni della sua vita Tommaso Guarino, fiaccato dalla malattia, diventerà cieco, costretto ad abbandonare oli e pennelli. Nel dicembre del 2016 una delle sue ultime mostre d’arte al teatro Franco Parenti di Milano, “quadri che avevano confermato quella sua originalissima vena artistica per cui la concretezza dei corpi, della terra, della natura diventa, attraverso la via delle emozioni, poesia”.
Si spegne l’11 febbraio 2018 nella sua dimora milanese circondato dai familiari e dagli amici più cari.

LA TESTIMONIANZA
DANIELA AIROLDI BIANCHI_ Teatro Officina Milano

foto di Eugenio Marongiu

Tommaso  era una persona profondamente radicata nel quartiere di Milano dove abitava, poco distante dal Teatro Officina.
Lo conoscevano tutti, e a tutti Tommaso riservava una parola buona.
Dipingeva per lo più di notte, per lunghe ore. Ogni tanto faceva delle pause e usciva fuori, sulla strada, a fumarsi una sigaretta. Nelle sere d’estate le vie del quartiere erano piene di giovani immigrati stranieri, che cercavano un po’ di refrigerio alla calura delle misere case in cui alloggiavano (talvolta stavano fino a una decina di persone in due piccole stanze). Tommaso si fermava a parlare con loro: ascoltava i loro bisogni, se poteva dava una mano per risolvere i loro problemi – scrivendo una lettera, o un curriculum, indicando i patronati o i sindacati dove avrebbero potuto recarsi per ricevere assistenza legale; divideva con loro ciò che quel giorno aveva magari ricevuto in regalo da qualche conoscente (della frutta, dei dolci, o del formaggio) e, soprattutto,  faceva  con mitezza dolce ma ferma una sorta di “educazione civica” a questi stranieri che provenivano da altri mondi, spesso rurali, poco avvezzi alle regole del vivere in città. Spiegava loro, ad esempio, che non era opportuno gridare e fare schiamazzi, né lasciare bottiglie di birra ormai vuote in mezzo alla strada e che queste andavano semmai messe nei cestini dei rifiuti; che poteva essere sgradevole per una ragazza sola che rientrava tardi a casa trovarsi davanti sul marciapiede un gruppo compatto di uomini che la osservavano, e che era più garbato semmai farsi da parte quando lei passava e non fissarla, e così via. Questo lavoro di base, preziosissimo, ha permesso per lunghi anni  ad un quartiere multietnico di non conoscere episodi di violenza e di risse. Chi lo fa oggi? Chi si ferma ad ascoltare senza giudicare, a spiegare senza supponenza, a mediare conflitti mettendo una parola buona? Mi piace ricordare oggi questo Tommaso Guarino: un grande pittore, un sensibile attore, un drammaturgo immaginifico, che è stato anche una persona concretamente  attenta alla vita delle persone comuni, presente  quotidianamente con atti precisi nel quartiere milanese in cui abitava, testimone incarnato di un modo semplice e onesto di stare dalla parte degli ultimi. 
La sua bellissima casa, piena di quadri e di oggetti d’arte, era un porto a cui ogni persona sola e in pena sapeva di poter approdare. Quella casa è stata -per anni e in lunghi pomeriggi di studio – una scuola di lingua italiana per decine di stranieri, cui Tommaso insegnava a leggere e a scrivere, persone che ora lavorano e che si sono ben inserite nella città di Milano.
Sono entrata in quella casa per trent’ anni: non ho mai trovato la porta d’ingresso chiusa a chiave una sola volta, neppure negli ultimi tempi quando Tommaso era ormai cieco e inerme. La porta era sempre e solo accostata, senza giro di chiave. Eppure, a Tommaso nessuno ha mai rubato nulla.
Grazie a te Tommaso  per la Grazia dell’incontro che ci hai donato. 

Articoli pubblicati su “Il quotidiano del Sud- ediz. Salerno” del giorno 11 febbraio 2020

 

Emanuela Carrafiello

Giornalista

Leave a Reply