Sono trascorsi pochi decenni da quando in alcuni rioni cittadini, sin dal mercoledì delle Ceneri, si vedevano sventolare sospesi nel vuoto strani fantocci. Questa bizzarra “pupattola”, realizzata con ritagli di stoffa nera e stracci, simboleggiava la Quaresima, ovvero il periodo di “magra” e di astinenza che, dopo le scorpacciate carnevalesche, iniziava con la ricorrenza delle Ceneri e si concludeva quaranta giorni dopo (il giovedì Santo). Un periodo di penitenza e di preghiera che secondo il calendario cristiano contempla i 40 giorni e le 40 notti di Cristo nel deserto e anticipa la Pasqua.
La “pupa di pezza” stava a simboleggiare un periodo di digiuno e penitenza e, come controparte al Carnevale, personificato in un uomo grasso ed opulento, viene anche definita la “vedova di Carnevale“. Proprio perché ne rappresenta l’antitesi la “quaresima” esposta all’aria aperta (perché potesse oscillare al vento) doveva essere intesa come il desiderio di purificazione dei peccati e, in particolare, del “male morale” contratto durante le allegrie e le orge carnevalesche.
Ancora oggi in alcune zone dell’Italia centromeridionale l’usanza sopravvive e più ci si addentra più questo rito rimanda a culti pagani, che si intrecciano e si fondono con il sacro. In molti casi a questi fantocci viene appiccato il fuoco, come eliminazione metaforica della povertà o come atto purificatorio e propiziatorio per i buoni raccolti della nuova stagione.
Anche nella piana del Sele il rito era osservato e la “Quaresima”, raffigurata come una vecchia vestita rigorosamente di nero, rammentava alla comunità di osservare le restrizioni imposte dal periodo quaresimale. La regola, infatti, prevede il digiuno, che però non vuol dire “non mangiare”: è l’obbligo per tutti i fedeli tra i 18 e i 60 anni (salvo in caso di malattia) di fare un unico pasto nella giornata; l’astinenza dalle carni, invece, impone (ai fedeli tra i 14 e i 60 anni in buono stato di salute) di non consumare né carne (rossa e bianca) né cibi costosi o ricercati; sono permessi, invece, pesce, uova e latticini.
Quanto la comunità ebolitana vivesse con devozione il momento e l’annuncio pasquale è testimoniato da un documento di Guglielmo Toscano, consultabile presso la biblioteca Augelluzzi di Eboli:
“La mattina del mercoledì delle ceneri, nel primo giorno di Quaresima, successivo al martedì grasso ultimo giorno di carnevale, appariva appesa ad un filo di ferro, da un estremo all’altro della strada, bene in vista e al centro della via stessa, la pupattola che rappresentava la Quaresima, la Quaresima di via s. Antonio. Preparava il tutto un vecchio calzolaio del rione il buon zio Vincenzo Fulgione, ligio alle antiche tradizioni. La corda veniva tesa tra le case dei fratelli Sparano e quella di fronte dei Fulgione e altri, a debita altezza dal suolo in modo che la “Quaresima” rimanesse sospesa e intoccabile. La pupattola era fatta con stracci di stoffa nera e pezza bianca per la faccia e il grembiule. Il capo pure coperto di nera e stretta fra le braccia una scopa di grandezza proporzionata al pupazzo che raggiungeva in media la lunghezza di quaranta- cinquanta centimetri.
Di sotto, al posto dei piedi, una grossa arancia nella quale a raggiera erano infilzate sette penne di gallina. Le sette penne rappresentavano le sette settimane che intercorrono dall’inizio della Quaresima al giorno di Pasqua. Ad ogni fine settimana veniva strappata una penna dall’arancia, fino alla chiusura del periodo quaresimale.
Nel momento in cui si sparava la Gloria, intorno alle 12 del Sabato Santo, sempre il buono e simpatico autore del rito, zio Vincenzo Fulgione, esplodeva un colpo di fucile carico a pallini contro la quaresima e mandava tutto in aria. L’incubo penitenziale era così terminato con lo scoppio del tripudio festivo della Pasqua. Il colpo ben centrato alla Quaresima rappresenta la fine di un periodo di digiuno e astinenza (molto rispettato nei tempi andati) e l’inizio della gran festa pasquale con abbondanti mangiate”.