Il 13 febbraio Parlamento, Consiglio europeo e Commissione hanno raggiunto un accordo sulla cosiddetta direttiva sul copyright: il nuovo impianto di regole sul diritto d’autore, che rientra fra i capisaldi del digital single market, un mercato unico digitale nell’Ue che ricalchi l’assenza di barriere di quello fisico. Il Parlamento e i suoi promotori spiegano che l’obiettivo del testo è quello di forzare piattaforme come Google News, Facebook e YouTube a retribuire il lavoro di giornalisti e artisti, dalla musica al cinema indipendente.
Chi è ostile alla riforma, riunito in un fronte che va dai colossi tech ai militanti per l’internet libero, denuncia variamente le «limitazioni ai servizi per gli utenti» e i rischi di censura che sarebbero nascosti nei due articoli più controversi del testo, l’11 e il 13. In ogni caso la partita è ancora aperta perché il testo deve passare per il via libera dei rappresentanti del Consiglio, dalla commissione parlamentare per gli affari giuridici e dalla plenaria del Parlamento. Il tutto entro la scadenza della legislatura prevista nel maggio di quest’anno.
Ma cosa dice la direttiva?
La riforma incentiva gli aggregatori di contenuti online come Google News, Facebook e YouTube a «responsabilizzarsi» sulla diffusione di servizi prodotti da altri. In pratica, si ribaltano i rapporti di forza: non sono i titolari dei diritti d’autore a esigere il riconoscimento del proprio lavoro, spesso a vuoto, ma le piattaforme a doverlo garantire con accordi ad hoc. Come spiega una nota dell’Europarlamento, si tratta di «garantire che i diritti e gli obblighi derivati dal copyright si applichino anche a Internet». L’accordo, prosegue il testo, ha l’obiettivo di «rafforzare la posizione dei titolari dei diritti d’autore, in particolare musicisti, artisti, interpreti e sceneggiatori, nonché gli editori di notizie – si legge – al fine di negoziare accordi migliori per la retribuzione per l’uso delle loro opere sulle piattaforme online». A consentire il tutto sono i due articoli più controversi del testo, l’11 e il 13.
Che cosa stabiliscono?
L’articolo 11 si limita a garantire che gli editori (publisher) siano riconosciuti automaticamente come detentori dei diritti d’autore su certi contenuti (in comproprietà con i giornalisti). Il testo non prevede norme inedite, ma l’applicazione degli articoli di una direttiva del 2001 che impone agli stati membri di garantire agli autori di poter concedere o negare liberamente a terzi l’utilizzo della propria opera. Il maggiore riconoscimento dovrebbe tradursi, secondo gli autori del testo, in una maggiore forza negoziale di fronte alle piattaforme online come Google News.
Una bozza dell’articolo pubblicata sul suo blog da Julia Reeda, un’europarlamentare tedesca dei Verdi contraria alla direttiva, precisa che il diritto in questione si eserciterà fino a un massimo di due anni e riguarda i soli contenuti giornalistici (escludendo quindi le pubblicazioni scientifiche e l’attività di blog che non siano controllati da altri editori). L’articolo esclude sia la tassazione dei collegamenti ipertestuali, sconfessando il soprannome di «link tax», sia l’obbligo di retribuzione dei cosiddetti «snippet» (i ritagli degli articoli pubblicati per attrarre traffico, rimandando poi al link originario del servizio).
Gli aggregatori potranno continuare a pubblicare estratti purché siano «molto brevi», anche se non si forniscono dettagli più precisi: verosimilmente, dovranno essere gli editori a contrattare i dettagli applicati della norma, basandosi a propria volta sul suo recepimento nel diritto degli stati membri.
L’articolo 13 va più a fondo, stabilendo che le piattaforme online (come YouTube) debbano assumere la responsabilità dei contenuti diffusi sui propri canali. Oggi sono autori e produttori che devono reclamare la rimozione di contenuti protetti da copyright. La direttiva trasferisce questo obbligo alle piattaforme online, con il risultato – sperato – di condurre ad accordi bilaterali fra aziende Web e produttori di contenuto. Il testo precisa che le norme non si applicano a contenuti satirici, critici o parodistici (salvando così meme e Gif), piattaforme open source, enciclopedie online o comunque portali senza fini di lucro (è il caso, rispettivamente, di Git Hub o Wikipedia) e startup o imprese inferiori a una certa dimensione (il tetto è fissato a 10 milioni di ricavi, tre anni di vita e una soglia di cinque milioni di utenti mensili).
Ma quindi è stata approvata?
No. A Bruxelles c’è chi dà per scontata l’approvazione finale del testo, ma la procedura è tuttora in corso. Il testo deve ottenere, nell’ordine, il placet di Consiglio, della commissione parlamentare per gli affari giuridici e del Parlamento, riunito in plenaria a Strasburgo. L’assemblea ha già bloccato una volta la riforma a luglio 2017 e non si può escludere un colpo di scena dell’ultimo minuto. D’altronde, l’iter di approvazione va avanti – a rilento – da quasi tre anni. La proposta della Commissione risale al 2016, su iniziativa del popolare tedesco Günther Oettinger. Il 20 giugno 2018 la Commissione giurdica, l’organismo di competenze del caso, ha adottato la sua posizione.
Il 12 settembre dello stesso anno il parlamento ha dato il suo ok. Da allora sono iniziati i negoziati a porte chiuse tra Eurocamera, Consiglio e Commissione, sfociati nell’accordo raggiunto il 13 febbraio. La riforma ha scatenato una guerra fra lobby con pochi pari nella legislatura, almeno per quanto riguarda il pressing sui parlamentari. Da un lato della barricata editori, produttori discografici e cinematografici, decisi a garantire una retribuzione stabile dei propri contenuti. Dall’altro, per motivi diversi, i militanti per il Web libero (preoccupati dai rischi di censura) e Google e Facebook, irritati da una stretta regolatoria che comprometterebbe una quota – modesta – di entrate.
*di Alberto Magnani_ ilsole24ore