La notizia il 18 dicembre delle dimissioni da arcivescovo metropolita di Salerno di mons. Luigi Moretti non è giunta inaspettata per quanti ne evidenziavano l’alto senso di responsabilità nell’esercizio del ministero episcopale. Infatti, colpito da una forma di labirintite acuta che ne ha limitato sensibilmente l’attività pastorale, ha deciso di presentare le dimissioni a papa Francesco. Il codice di diritto canonico prevede al canone 401 che il vescovo diocesano rassegni obbligatoriamente le dimissioni al compimento dei settantacinque anni; lo invita, invece, “vivamente” a rinunciare alla carica qualora “per infermità o altra grave causa risultasse meno idoneo all’adempimento del suo ufficio”. Invito evidentemente accolto spontaneamente da mons. Luigi Moretti che avrà ritenuto “omnibus perpensis”, dopo ponderata valutazione – come pure si dice nel lessico canonico -, di non essere in grado di adempiere appieno a tutte le funzioni del suo ufficio di ordinario diocesano. E se l’ufficio ecclesiastico è un qualsiasi incarico stabilito per disposizione divina o umana da esercitarsi per un fine spirituale (can. 145), esso sarà sempre distinto dalla persona che lo esercita pro tempore.
Gli otto anni di episcopato salernitano di mons. Moretti lasciano indubbiamente un segno nella storia recente dell’arcidiocesi. Nominato nel giugno del 2010 al vertice della chiesa salernitana, ha dovuto misurarsi con le complesse vicende giudiziarie lasciate in eredità dal suo predecessore con l’affaire Angellara Home che incidevano altresì sulla situazione finanziaria della diocesi (da ricordare il caso unico in Italia di un sequestro preventivo dei fondi dell’otto per mille della diocesi poi ridimensionato in sede di Cassazione), nonché con la questione interna, non meno complessa e problematica, del “Gregge del Bambino Gesù”, componente di sacerdoti e laici all’origine di decennali polemiche intra-ecclesiali per un supposto statuto di segretezza, che solo con Moretti nel 2017 ha ottenuto formale riconoscimento seppure “ad experimentum” con lo status di associazione privata di fedeli.
Al di là di queste vicende che hanno messo felicemente alla prova la statura di amministratore di Luigi Moretti -è bene ricordare che l’ufficio da lui precedentemente ricoperto era di vicegerente di Roma, ovvero “numero tre” nella gerarchia della diocesi di cui il papa è vescovo e le funzioni episcopali sono esercitate da un cardinal vicario – lascia un segno anche sul terreno propriamente pastorale. In una Chiesa cattolica tutta versata nella «pastoralità», con agende e convegni pastorali da lui ben introdotti in diocesi, il “Direttorio per la celebrazione dei Sacramenti” e la stessa direttiva della Conferenza episcopale campana “Evangelizzare la pietà popolare” portano il marchio di una tale attenzione. Seppure diversi nelle fonti – il Direttorio è di ambito diocesano ed esplicitamente riconducibile a Moretti, la direttiva proviene dall’insieme dei vescovi campani – non si può negare che anche la direttiva del febbraio 2013 sia riferibile all’arcivescovo di Salerno e alla sua esigenza di disciplinare la processione di s. Matteo, poi all’origine dei gravi incidenti verificatisi in applicazione della stessa e portati alla competenza del giudice penale. Già in quell’occasione si ebbe modo di evidenziare come l’impostazione teologica del documento dei vescovi campani stridesse con il nuovo corso inaugurato dalla Evangelii gaudium del neo-eletto papa Francesco. Il papa argentino, in ossequio alla sua personale “teologia del popolo”, dichiarava che “con la pietà popolare il popolo evangelizza continuamente se stesso”, all’opposto Moretti e i vescovi campani partivano dal presupposto di evangelizzare dall’alto la pietà popolare sul timore che essa restasse “un fatto esteriore e superficiale, che non tocca l’uomo nel suo cuore e nella sua vita, un fatto legato cioè a particolari condizioni sociali e ambientali”. Il risultato è non solo un’evidente confusione dei linguaggi così tipica dell’attuale corso della Chiesa cattolica, ma soprattutto è segno di un ridimensionamento del valore della consuetudine, che tra le fonti del diritto canonico ricopre, almeno nella lettera, un rilievo così speciale da poter prevalere anche su una legge scritta. Vero è che una cosa è l’autentica pietà popolare, una cosa il folclore religioso e l’appropriazione per fini politici di esso. Tuttavia, il volere disciplinare sul cronoprogramma una processione, l’impartire minuziose istruzioni per l’addobbo delle chiese per il rito delle esequie, il delineare a tavolino unità pastorali di parrocchie senza tenere conto delle loro specificità, sono elementi che denunciano una propensione alla pianificazione non dissimili nella sostanza dalla burocrazia degli apparati statali.
L’arcivescovo Moretti ha imposto alla diocesi di Salerno dal 23 dicembre di pregare Dio, con speciale intenzione, per la nomina del suo successore, per “un vescovo secondo il tuo cuore affinché possa continuare ad illuminarci con la verità del Vangelo e ad edificarci con la testimonianza di vita”. L’identikit del nuovo arcivescovo di Salerno è così delineato nel segno della continuità e della testimonianza. I criteri che presiedono alle scelte di papa Francesco non prevedono spostamenti verso diocesi più importanti per vescovi già insediati in chiese locali più piccole. Onde evitare quel rischio di “concupiscenza” stigmatizzato dal papa per il carrierismo dei vescovi. Quindi il successore di Moretti, salvo eccezioni, sarà individuato in un sacerdote da elevarsi alla dignità episcopale. Un sacerdote cui non difetti una comprovata capacità di governo secondo l’antica massima attribuita a Gregorio Magno, “si pius oret, si doctus doceat, si prudens regat”. Se il pio è chiamato a pregare, il dotto ad insegnare, il “prudente” gregoriano destinato a governare è colui che unisce conoscenza della dottrina a capacità di governo. Se sarà individuato nell’ambito del clero salernitano o altrove, come sembra più probabile, sarà scelta che compete a papa Francesco o a chi è in grado di suggerirne le nomine per l’Italia.