“Con la mente, con la mano con cui Gesù porta a compimento i desideri del Padre, con la gioia con cui la vergine Madre si prepara ad affrontare i compiti di una madre, così la carità fraterna ci governi, temperando le amarezze della vita e alimentano la pace domestica”: sono le parole, dettate in latino, di un abate morente alla sua comunità monastica. A pronunciarle è il Servo di Dio D. Mauro De Caro, abate della Badia di Cava, all’esito di un carcinoma allo stomaco, che il 18 maggio 1956, all’età di 54 anni, dopo dieci anni di governo abbaziale, ventinove di sacerdozio e trentacinque di professione monastica, poneva fine alla sua giornata terrena.
La Diocesi di S. Marco Argentano – Scalea, di cui l’abate De Caro è figlio essendo nato il16 settembre 1902 a Cetraro sulla costa tirrenica calabrese, un’antica dipendenza dell’abbazia di Montecassino, ha di recente riproposto la sua causa di beatificazione, già avviata nel 1979 dalla Badia di Cava, e un elegante e non oleografico saggio di mons. Ermanno Raimondo, canonico teologo del capitolo di quella cattedrale, “L’Abate Santo Don Mauro De Caro”, edito da Calabria Edizioni nel 2014, ne rilancia la figura e l’opera.
E’ l’autore stesso a precisarne la valenza, laddove sottolinea come “la santità di D. Mauro non è clamorosa, spettacolare, come quella di un S. Pio da Pietrelcina o del nostro patrono calabrese S. Francesco di Paola o dello stesso S. Benedetto, ma una «santità nascosta», «giornaliera», fatta di silenziosa fedeltà alla grazia di Dio, la santità di un padre dei poveri e degli umili, del pastore mansueto e infaticabile, del monaco umile e obbediente”. E a ripercorrere la vita di D. Mauro De Caro si ritrovano tutte le attestazioni di un tale giudizio.
Nato da nobile famiglia, D. Mauro ha percorso tutto l’iter classico di formazione di un monaco benedettino di altri tempi e secondo il modulo formativo della Badia di Cava, vocata all’educazione della gioventù con il suo famoso Collegio S. Benedetto e con annesso liceo classico di cui nel 2017 è caduto il 150° della fondazione. Quindi, oltre alla specifica competenza teologica acquisita con il dottorato presso il collegio internazionale S. Anselmo in Roma, l’Università dei Benedettini, la laurea in lettere classiche presso la Sapienza e il diploma in paleografia e diplomatica presso l’Archivio segreto vaticano, conseguiti con il massimo dei voti, erano i titoli che alla Badia portavano all’insegnamento e alla gestione del preziosissimo deposito archivistico e, di conseguenza, spalancavano la via per l’abbaziato. Negli anni della permanenza romana, inoltre, s’intreccia il rapporto, destinato a durare tutta la vita, con il beato Ildefonso Schuster, abate di S. Paolo fuori le Mura e poi arcivescovo cardinale di Milano. Un rapporto che culminerà con la benedizione abbaziale impartita dall’antico maestro al suo allievo spirituale il 21 marzo 1946. Ma è nell’insegnamento e nel rapporto con i giovani che il carisma di D. Mauro si è manifestato nella forma più compiuta per poi consolidarsi nelle accresciute responsabilità di Abate e di Ordinario della diocesi abbaziale, nella cui comunità e nelle cui popolazioni lascerà una traccia profonda.
Una sezione del saggio è, infatti, dedicata alle testimonianze dei suoi ex allievi e colpisce la compattezza del giudizio tutto volto ad esaltarne le straordinarie doti di umiltà. Come quando, alla notizia della conferma da parte della S. Sede dell’elezione ad abate il 18 febbraio 1946 recata da un monaco al colmo dell’entusiasmo ad un D. Mauro intento all’insegnamento liceale, la sua reazione fu di arrossire e di nascondersi il viso tra le mani mentre tutt’intorno scoppiava un tripudio di gioia e di felicitazioni. E’ un esempio di esercizio di quelle “virtù eroiche” di cui la Chiesa si serve per esaltare la santità dei suoi figli al di fuori del caso del martirio per la testimonianza della fede. Queste virtù si manifesteranno più compiutamente nel decennale abbaziato e nel costante rapporto con le popolazioni della diocesi abbaziale, frazionata tra il Cilento, Roccapiemonte, il Vallo di Diano e Tramutola nel potentino. Il Concilio Vaticano II ha promosso, come è noto, la ridefinizione delle circoscrizioni diocesane sulla base della contiguità e uniformità territoriale. Il risultato è stato anche una deriva burocratica che ha assimilato le diocesi e in genere gli apparati ecclesiastici alle strutture statali. La cifra, invece, delle antiche diocesi abbaziali e, tra queste, quella della Badia di Cava era la prossimità dell’Abate Ordinario alle popolazioni da lui governate al di là e contro il frazionamento territoriale. Per la Badia bastino i due sinodi diocesani del 1923 sotto l’abate Placido Nicolini e del 1950 voluto proprio da D. Mauro nell’immediato periodo post-bellico per attestare, in epoche poco avvezze alla «sinodalità», il grado di sollecitudine di quegli ordinari per la loro diocesi. Cura per la formazione del clero, cura per il bene spirituale e anche materiale del gregge dei fedeli. In questo D. Mauro De Caro seppe spendersi compiutamente. Come nell’ultima visita alla diocesi, a pochi giorni dalla morte, l’8 e il 9 maggio 1956, a Castellabate, nel centro cilentano, pur segnato dalla malattia non volle venir meno ai suoi doveri di pastore e di amministratore, come ricorda il parroco dell’epoca mons. Alfonso Maria Farina. “Ritornando all’asilo, dopo la visita al castello e alla canonica, esausto nelle forze e pallido in volto, salendo le scale di accesso al suo appartamento, non ce la fece più. Traballò, si aggrappò al mio braccio e fu costretto a fermarsi. Riavutosi, mi disse sorridendo: «exultabunt ossa humiliata». E riprese subito a camminare”. Allo stesso modo, resta vivo il ricordo nell’attuale priore claustrale D. Leone, a cui, all’atto della sua vestizione da parte di D. Mauro “dal suo letto di dolore”, fu ricordato dall’abate che “Dio ama colui che si dà con gioia”, laddove la gioia era significata dall’offerta della vita tanto per il novizio quanto per il superiore gravemente malato.
Attraverso questi squarci della biografia di un monaco nel suo percorso verso i «culmina virtutum» indicati come fine ultimo dalla Regola di S. Benedetto, ovvero l’apice di una santità ordinariamente e coerentemente vissuta nella professione dei voti monastici, si comprende quello che fu il giudizio sul giovane D. Mauro espresso dal suo immediato successore D. Fausto Mezza. “La sua riservatezza quasi virginea, il suo amore al silenzio e quella sua forza di astrazione per cui poteva immergersi nello studio e nella preghiera senza più avvedersi di quanto gli capitava d’intorno, tutto accusava in lui una costituzione psico-fisica che pareva fatta apposta per la vita cenobitica”.
S. Benedetto nella Regola intende delineare un “fortissimum genus coenobitarum”, cioè un genere fortissimo di monaci che vivano in comune. La vita comunitaria comporta “il martirio della personalità” nella misura in cui le esigenze del singolo devono cedere a quelle comunitarie nella condivisione di una prospettiva di vita forgiata su ben dodici gradi di umiltà. Una ricetta difficile da intendere in una società votata all’opposto all’esaltazione della dimensione personale in termini di affermazione di diritti individuali. La vita di D. Mauro De Caro è stata invece tutta vissuta nella dimensione comunitaria del suo essere monaco e nella sua azione pratica di educatore e di pastore di anime. Non è accidentale che sul suo letto di morte, nel raccomandare ancora ai suoi monaci la gioia, volle che gli fossero recitati la Pentecoste di Manzoni e il salmo 22, “Il Signore è il mio pastore”. Il Salmista ricorda che “se passerò in mezzo alle ombre della morte, non temerò il male perché Tu sei con me”, nella Pentecoste Manzoni, dopo una visione cosmica dell’azione dello Spirito sulla vita dell’uomo, si sofferma sul mistero della morte con il verso “brilla nel guardo errante di chi sperando muor”. Lezione ben presente all’uomo di Dio Mauro De Caro che in quel momento supremo avrà sperimentato tutta la certezza del Salmo 22 e tutta la speranza dell’inno manzoniano nel compimento della sua giornata terrena.
“Moribus decoratus angelicis”: decorato dei modi degli angeli si dice di S. Benedetto. Lo si può dire anche di questo suo figlio, D. Mauro De Caro, che nell’esercizio di una santità nascosta, giornaliera, ha testimoniato fedeltà alla professione monastica sotto la guida del Vangelo e la cui memoria è in benedizione, come la Bibbia impone per coloro che furono padri della fede e di cui è doveroso tessere l’elogio.
© riproduzione riservata