Il destino del ‘classico’ tra identità e alterità nella varietà dell’esperienza della storia è tema che emerge nella lettura complementare di due eminenti studiosi, pur contrapposti spesso nelle posizioni, Luciano Canfora e Salvatore Settis.
L’agile saggio di Luciano Canfora, 1914 (Palermo 2014), l’anno “fatidico” dell’inizio della I Guerra mondiale, offre una prima considerazione sul proteiforme concetto di “classico” inteso come esperienza / conoscenza della civiltà greco-romana. E ciò non sorprende in un lavoro dedicato ad uno degli eventi – cardine della storia di ogni tempo sia per la formazione dell’autore, classicista tra i più noti, sia per il personale metodo sotteso all’analisi.
La peculiarità della ricostruzione storica operata da Canfora incontra così una delle valenze in uso per definire l’idea di classico, che lo storico dell’arte antica Salvatore Settis nel Futuro del ‘classico’ (Torino, 2004) ha rilanciato sotto la formula della “varietà e complessità dell’esperienza storica”.
La formula di Settis, erede peraltro delle intuizioni di Lévi-Strauss, trova una felice conferma proprio nell’analisi condotta da Canfora sui nessi tra il primo e secondo conflitto mondiale, visti nel contesto della Guerra civile europea secondo la fortunata definizione di Ernst Nolte.
Per lo studioso del mondo antico l’intrinseca unitarietà delle due guerre mondiali rimanda all’analoga intuizione che Tucidide, storico della Guerra del Peloponneso nel V secolo A.C., ebbe del conflitto che si svolgeva sotto i suoi occhi, solo formalmente distinto nelle tre fasi che lo cadenzarono tra la pace di Nicia, la spedizione siciliana e la ripresa delle ostilità con la capitolazione di Atene. Quasi un trentennio di guerra che consente a Tucidide la possibilità di “normativizzare” il metodo storico nella scoperta della “causa verissima e inconfessata” del conflitto.
Né le analogie per Canfora si limitano al rapporto causa-effetto tra i fatti. Anche la genesi della “Grande Guerra”, sviluppatasi nel contesto dei conflitti balcanici, cui l’Italia nel 1912 con la campagna di Libia offre il destro, rimanda allo scontro locale tra Corinto e Corcira, che presto induce le superpotenze rivali Atene e Sparta a confrontarsi direttamente sul terreno di battaglia.
Il metodo tucidideo già allora introduceva nella storia l’idea di una “prognosi” dei fatti, strumento per l’analisi degli eventi e per la previsione di accadimenti similari.
Qui non si affronta la questione della veridicità dell’intuizione di Tucidide, piuttosto il valore che essa ha assunto per la definizione della varietà e complessità nell’esperienza storica. Perché, all’opposto, Settis intravede il rischio della “iconizzazione” del classico, ovvero la tendenza a considerarlo come “un immobile sistema di valori”, causa non ultima della sua regressione nella formazione scolastica contemporanea.
L’immutabilità del concetto di classico, la sua riduzione ad icona che “si venera ma non si esplora”, è peraltro una proiezione delle appropriazioni indebite della classicità che di volta in volta si sono verificate nella storia dell’Occidente, come nella pratica dei totalitarismi del XX secolo. Tuttavia, se la strada da seguire per Lévi-Strauss, come per Settis, passa attraverso la comparazione etnografica secondo “una tecnica dello straniamento”, vi è da dire che anche questa intuizione è presente nella riflessione degli Antichi.
Un capitolo delle Storie di Erodoto, storico delle guerre persiane ma prima ancora dell’impero persiano, pone problematicamente la questione dei Greci e degli altri. Nel libro III al capitolo 38, non per mero esercizio di divagazione di cui pure lo accusava Tucidide, Erodoto riferisce un curioso esperimento di comparazione etnica proposto da Dario, il gran re, a Greci e Indiani dei suoi domini. La questione verte sulla differenza dei riti funebri, con gli Indiani Callati che mangiavano i loro padri defunti e i Greci che li cremavano. Invitati da Dario a scambiarsi i rituali, gl’interessati rifiutano inorriditi. Lapidario il commento dello storico: “Così queste cose sono diventate oggetto di consuetudine e mi sembra che correttamente ha fatto Pindaro dicendo che «la consuetudine in tutto è sovrana»”.
Nómos basileús: l’icastica formula di Pindaro è adottata da Erodoto per spiegare la complessità dell’esistente attraverso la pluralità delle culture umane. La logica della comparazione culturale, già presente agli Antichi, diventa, nello studio del classico, “una forma di antropologia latente”. Un’antropologia che coinvolge i più svariati campi dell’esperienza storica in cui convivono identità e alterità specie nella complessità della rappresentazione del mondo contemporaneo.
Sempre Canfora ricorda che il cancelliere di Guglielmo II, Bethmann-Hollweg, con l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto nel settembre del 1917 a seguito della guerra sottomarina tedesca, era solito ripetere che “questa guerra sottomarina è la nostra spedizione in Sicilia”. Ancora una volta un episodio della storia antica veniva usato in chiave di comparazione dei fatti per il suo riconosciuto valore paradigmatico. E non errava il cancelliere ad evocare l’immagine della disastrosa campagna siciliana voluta dagli Ateniesi per incalzare il nemico al di fuori del suo territorio di fronte alla persuasione tedesca di recidere la benevola neutralità degli Americani verso l’Intesa. Anche se “la causa verissima e inconfessata” dell’intervento americano va ricercata nell’uscita della Russia dal conflitto, tuttavia, come per gli Ateniesi in Sicilia, così per i Tedeschi, l’estensione ulteriore della guerra si traduce nel presupposto per la loro sconfitta.
In questa prospettiva, il paradigma non esclude l’analisi della complessità e della varietà dei fatti nel loro accadimento, non è assimilabile all’iconizzazione atemporale del classico, è piuttosto il necessario terminus comparationis su cui si gioca l’eterna partita tra identità e alterità.
Il destino del classico, a voler parafrasare Settis, passa attraverso la corretta riappropriazione di esso nel sistema formativo, non in chiave di esclusione, ma per una definizione più compiuta della propria identità a partire da quella che già si configura come l’alterità degli Antichi. E tanto più nella frammentazione dell’attuale esperienza storica in cui l’identità si dissolve innanzi all’incomprensione dell’alterità o alla sua fallace e acritica assimilazione.
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