Angela Merkel non ha perso la prima occasione disponibile per polemizzare con l’amministrazione Trump, e ha definito ingiustificate le misure che sospendono per tre mesi gli ingressi negli Stati Uniti di cittadini provenienti da sette paesi islamici e per 120 giorni le ammissioni di rifugiati. Ma è solo un pretesto per mettere in difficoltà quella che ha tutta l’aria di poter diventare la nuova “bestia nera” dell’establishment tedesco per ragioni ben diverse da quelle di una contrapposizione valoriale.
Dopo l’intervista da lui rilasciata al Times e alla Bild a gennaio, il vero incubo di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble è fuor di dubbio Donald Trump. È lui che spinge Berlino sull’orlo di una crisi di nervi: se farà seguire le parole ai fatti, l’egemonia bottegaia della Germania in Europa e il suo mostruoso avanzo di bilancia commerciale hanno i giorni contati. Col suo consueto tatto, Trump ha dichiarato che l’Unione Europea «fondamentalmente è uno strumento della Germania» e per questo «i britannici hanno fatto bene a uscire». A Berlino è suonato l’allarme rosso.
La cancelliera ha tenuto un discorso dai toni obamiani alla Camera di Commercio di Colonia. «Il mio governo è pronto a combattere per salvare il libero commercio e i mercati aperti», ha detto. «Unitevi a me per difendere la democrazia liberale e il libero commercio. Ogni generazione si trova a doversi battere per i propri ideali. Sono convinta che abbracciare la competizione anziché eliminarla è meglio per lo sviluppo umano e la prosperità in Germania».
Fa un po’ ridere l’apologia del libero gioco del mercato e dei benefici della competizione da parte di un paese che si avvantaggia dell’architettura disfunzionale dell’euro, il quale funziona per le esportazioni tedesche come una svalutazione competitiva permanente: il disallineamento del tasso di cambio effettivo reale nei vari paesi dell’eurozona fa sì che la valuta comune rappresenti una zavorra per alcuni competitori della Germania che hanno una situazione macroeconomica più debole di quella tedesca, prima fra tutti l’Italia. Per questi paesi, Trump potrebbe essere una specie di vendicatore dei torti germanici e delle tirate moralistiche sulle virtù dell’austerità di bilancio che li accompagnano.
L’America non è l’Europa
La Germania è il secondo paese al mondo dopo la Cina per attivo di bilancia commerciale con l’estero: in base agli ultimi dati disponibili (2015) il valore delle sue esportazioni supera quello delle importazioni per 247 miliardi di euro. Da sola la Germania totalizza oltre l’80 per cento di tutto l’attivo di bilancia commerciale dell’intera Unione Europea. Non solo, ma da ben otto anni questo surplus è superiore al 6 per cento del Pil tedesco, una violazione conclamata dei parametri di Maastricht, che stabiliscono non solo che un paese non può sforare il tetto del 3 per cento di deficit per più di tre anni di seguito, ma non può nemmeno registrare un attivo della bilancia commerciale superiore al 6 per cento del Pil per più di tre anni di seguito. Per stare alle regole europee, vale a dire al necessario equilibrio fra i paesi che fanno parte dell’eurozona, la Germania dovrebbe importare di più, ma si rifiuta di farlo e nessuno in Europa è così robusto da poterglielo imporre. In Europa no, ma in America…
L’attivo degli scambi commerciali tedeschi con gli Stati Uniti ha registrato il suo record storico nel 2015, che è l’ultimo anno per cui i dati sono disponibili: 173,9 miliardi di euro. Per la prima volta gli Stati Uniti sono diventati il primo mercato delle merci tedesche, subentrando alla Francia. Secondo uno studio dell’Istituto per la ricerca economica di Monaco, circa un milione e mezzo di posti di lavoro in Germania dipendono dagli scambi con gli Stati Uniti. Se il protezionismo a geometria variabile di Trump e la sua preferenza per gli accordi commerciali bilaterali anziché per i trattati di libero scambio come il Tpp (quello coi paesi asiatici, già affossato) e il Ttip (quello coi paesi europei, già incagliato di suo) dovessero confermarsi, il surplus tedesco ha i giorni contati.
Se, sondaggi a parte, le prossime elezioni le vincerà Angela Merkel e non la Spd di Martin Schulz, la rotta di collisione dell’eurozona con l’iceberg delle bancarotte nazionali che la affonderà ma lascerà a galla il transatlantico tedesco è segnata. La Germania, per bocca di Schäuble non meno che della stampa popolare, accusa la Bce di alimentare il lassismo fiscale e l’indebitamento negli altri paesi dell’eurozona, e di punire il risparmio tedesco, con la sua politica dei bassissimi tassi d’interesse, ma giustamente Mario Draghi risponde che i tassi sono bassissimi come conseguenza del surplus della bilancia commerciale tedesca e della insufficiente domanda di investimenti. Non c’è domanda perché l’economia tedesca non vuole domandare, mentre quelle degli altri paesi non possono.
I tedeschi, grazie al vantaggio competitivo acquisito con le riforme del mercato del lavoro del 2000 e blindato con l’introduzione dell’euro senza unione fiscale fra i paesi aderenti, hanno con progressione quasi geometrica esportato merci e prestato capitali negli altri paesi dell’eurozona, mentre non aumentavano le importazioni da quegli stessi paesi e nemmeno redistribuivano o investivano in Germania i profitti dell’export.
Se tramonta la moneta unica
Con la bilancia del commercio estero in passivo o comunque meno florida che in passato, i paesi del Sud Europa si sono dovuti indebitare col sistema finanziario tedesco per continuare a importare beni tedeschi e mantenere i livelli di consumo. A quel punto la Germania ha imposto le politiche di austerità attraverso l’Unione Europea, per impedire il default dei debitori e costringerli a pagare il dovuto.
Alla fine della fiera, qual è la strategia del duo Merkel-Schäuble? Utilizzare l’avanzo di bilancia commerciale per ridurre il debito tedesco. Fra il 2010 e la fine del 2015 il debito pubblico degli Stati Uniti è passato dal 95,2 per cento al 108,2, quello dell’Italia dal 115,3 al 133,2 e quello dell’eurozona dall’83,8 al 91,7. Invece quello della Germania, caso unico fra i paesi industriali, è sceso dall’81 per cento al 67,9. La spremitura delle economie dei paesi dell’euro invitati a vendere i gioielli di famiglia o a tosare i contribuenti con tasse patrimoniali mira semplicemente a protrarre quanto più a lungo possibile il giochino dell’euro, che permette alla Germania di mettere fieno in cascina in vista dei tempi cupi. Quelli in cui l’euro sarà un doloroso ricordo per greci e latini.
Rodolfo Casadei
dal settimanale “Tempi” del 12 febbraio 2017
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