OmissisC’è lavoratore e lavoratore: privati uguali ma diversi

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L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma c’è lavoro e lavoro. Nel senso che, indipendentemente dall’effettiva realizzazione del principio, non la scopre certo Cronache la differenza tra i lavoratori del settore pubblico e quelli del privato. Il punto è che non solo questi ultimi subiscono sfacciate discriminazioni (esse sì, e di kermesse “pride” all’orizzonte in tal senso non se ne vedono…) ma vien fuori pure che tra gli stessi privati esistono differenze di trattamento.

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Ci riferiamo, ad esempio, ai dipendenti dei centri sanitari accreditati i quali, a parità di mansioni, titoli, qualifiche ed orari di lavoro, hanno un trattamento retributivo minore rispetto a quelli del settore pubblico.

Nei giorni scorsi è stato un sindacalista della Cgil, Arturo Sessa, a rilanciare la questione: con incerto successo, per la verità, stando a giudicare dalla risposta mediatica ottenuta su un tema in realtà profondamente serio. E la difesa dei lavoratori sic et simpliciter c’entra fino ad un certo punto dal momento che entrano in ballo questioni più serie, attinenti la sfera delle garanzie costituzionali dei cittadini: il diritto di ottenere pari trattamento in costanza di pari condizioni e di non essere discriminati. L’articolo 1 della famosa costituzione più bella del mondo, sembra dunque uno sfottò.

In Campania il problema è tornato d’attualità da quando la Regione (negli anni scorsi e, pare, anche recenti) ha “liberalizzato” i contratti per i lavoratori dei centri accreditati, finora “garantiti” a livello legislativo dal contratto cosidetto “Aiop-Don Gnocchi”, assunto a parametro di riferimento. Senza scendere nel merito tecnico della vertenza sindacale -materia ostica oltre che noiosa- l’allarme lanciato dal sindacalista (per la verità la questione è all’ordine del giorno da tempo tra alcune associazioni di categoria) si trasforma in dato di cronaca puro perché, dietro il paravento dela stortura legislativa, si cela in realtà un universo un po’ più complesso e, al tempo stesso, di natura più prosaica: vale a dire la proliferazione di sigle e siglette sindacali, in genere rappresentative al massimo di chi ne incarna la dirigenza pro tempore, che per logiche diverse, approvano i contratti discriminatori firmando accordi con le imprese ai tavoli cui si erano seduti in virtù proprio del principio generale del diritto universale alla rappresentanza degli interessi dei lavoratori. S’è visto quanto interesse.

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Le Cronache” del 7 febbraio 2016)

Peppe Rinaldi

Giornalista

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