Non sarà una nuova Cassa per il Mezzogiorno perché quel mondo, se inteso solo negativamente, viaggia sotto altre spoglie con acronimi diversi: ma come minimo una «cassetta per la Campania» potrà essere l’intesa su Bagnoli sancita l’altro giorno da un emendamento del ministro Boschi approvato al Senato in riforma dell’articolo 33 del decreto così detto “Salva Italia”, nella parte riguardante l’area dell’ex Italsider. Trecento ettari circa di archeologia industriale ad oltre vent’anni dallo spegnimento dell’ultimo altoforno, un groviglio di burocrazia, competenze sovrapposte, Cda aperti e chiusi, aziende speciali e miste, indagini giudiziarie, sequestri, bolli, timbri, sciatteria politica e, potenzialmente, un altrettanto intricato universo di interessi con molti zeri, nessuno escluso. Come dappertutto, del resto. Tutto costato -finora – quasi 400 milioni di euro. Pubblici.
Oggi la musica -dicono- sta per cambiare perché il governo avrebbe individuato chi dovrà far cosa, cioè chi sarà il «soggetto attuatore» della bonifica dell’area. Costo stimato, al momento, attorno ai 300 milioni.
Si tratta di Invitalia spa, società in house dello stato, la ex Sviluppo Italia in versione 2.0, almeno sulla carta: l’azienda speciale per azioni, che opera sul mercato come soggetto privato pur essendo di matrice pubblica con tutto ciò che una certa ambiguità normativa implica, potrà aprirsi ai privati, anzi, dovrà farlo proprio per sua stessa mission, come si dice. Ovviamente se tutto filerà via liscio, circostanza non scontata considerando che l’accordo condensato nell’emendamento del governo, è pur sempre frutto di un braccio di ferro tra i soggetti protagonisti dell’infinita storia di Bagnoli: dal Comune alla Regione, dal Pd stesso che da tempo insiste sulla questione nonostante sia il “mandante” storico del fallimento di decine di progetti di risanamento, dal Governo ai ministeri coinvolti, dai proprietari dei suoli (già Mededil, poi Fintecna) alla stratificazione di enti ed istituzioni formatasi negli anni.
E’ finita all’italiana e rischia di finire così anche dopo a causa del potenziale impasse dovuto alla sequela di soggetti coinvolti che -la storia insegna- alla prima virgola fuori posto piazzeranno un bel ricorsino al Tar, salvo poi riavviare la giostra della paralisi. Un rischio che non sembra escluso. Si vedrà.
Dovranno perciò viaggiare di ferrea intesa (in Italia? in Campania?) il Sottosegretariato di Stato di Palazzo Chigi, il Commissariato straordinario del Mise, il ministero dell’Ambiente, quello delle Infrastrutture, il Comune e la Regione: insomma, una sorta di Conferenza dei servizi permanente, tanto per tener fede alle promesse di sburocratizzazione del premier. Sullo sfondo una torta (legittima) da 300 e passa milioni per il recupero di un’area un tempo commovente per la sua bellezza. Li metteranno i privati che Invitalia riuscirà ad attrarre? Chi può dirlo, finora non è andata molto bene con il settore. Al momento in cassa ci sono «solo» 50 milioni di euro (pubblici) residuati dalla passata gestione e se non finiranno in studi di progettazione, consorzi, consulenze e gettoni (la modulazione dell’organigramma operativo non sembra definita) serviranno per avviare la barca. Che non è detto navigherà in mare calmo. La speranza è altra cosa e così ieri era percepibile, comprensibilmente, una certa effervescenza per la quadratura del cerchio.
Per capire di cosa parliamo e di quanto danaro ci sia in ballo, consideriamo che nel 1996 il Parlamento sembrò decidersi a dare una svolta con l’approvazione della legge 582, stanziando i primi 25 miliardi di lire per la ricostituzione della morfologia naturale dell’area deturpata dalla siderurgia piazzata lì un secolo prima da Nitti.
Dopo, ancora soldi pubblici: 15 milioni il capitale sociale per la mista Bagnoli spa, versato in massima parte dal Comune di Napoli (proprietario del 90%), dalla Regione Campania e dall’allora Provincia; oltre 100 milioni per le attività di bonifica (secondo la magistratura, in larga parte fittiziamente), 15 milioni dal Por Campania e 17 milioni di risorse proprie. Nel 2007 per completare le attività, gli «esperti» stimavano un fabbisogno tra i 500 e i 600 milioni. Nel 2008 mancava ancora la consegna di 30 ettari di impianti sportivi e dovevano essere finiti diversi edifici tra cui la Porta del parco, un centro termale, un parcheggio multi-livello, un centro di ricerca con il famoso Turtle point (sequestrato poi dalla procura) costruito nei bicchieri di raffreddamento delle acque dell’altoforno. Moltissimo ha giocato la politica, quella «de sinistra», impastata di ideologia e pratica di potere.
In una prima stesura del decreto, il governo aveva escluso che il Comune (forse alla luce del curriculum di Palazzo San Giacomo) potesse metterci becco. De Magistris inizia però a scalciare, produce ricorsi, vuole decidere. Anche perché -dice- su quell’area il comune ha un suo progetto, la qual cosa non entusiasmerebbe troppo tenuto conto delle rigidità culturali di sindaco e maggioranza. Alla fine Renzi si piega e allunga il brodo, seppur con una specie di riserva: vale a dire che neppure il commissario, l’ex presidente del San Carlo Nastasi, dal premier stesso individuato dopo mesi di fibrillazioni, sarebbe un commissario perfetto essendo stato «commissariato» dalla “Cabina di regia” guidata dal vice ministro De Vincenti. Con questi il neo governatore De Luca e il sindaco di Napoli, in fine accontentato con la modifica al decreto.
Restano, a questo punto, due cose: un segno della croce e un napoletanissimo gesto scaramantico.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 30 luglio 2015)