Omissis«Non sequestrarono le carte del papello»: ma era una “patacca” tutto archiviato

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Ciancimino Ruotolo

E’ l’epopea della patacca che volge al tramonto, la luce che sfuma davanti al sipario, un anticipo -chissà- del destino della madre che per partenogenesi la creò, cioè il processo per la ‘trattativa’ stato-mafia, in corso a Palermo. La storia è nota. Meno nota è la circostanza che l’inchiesta-stralcio nata dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (a sinistra nella foto, a destra il giornalista Sandro Ruotolo) sia stata definitivamente sepolta. Eppure vi erano nomi di peso, come l’ex capo del Ros Mario Mori (qui indagato per 416 bis, associazione mafiosa) o il mega boss Bernardo Provenzano, accanto ad altri, meno mediatici ma significativi per funzioni ed incarichi.

Ufficiali dell’Arma e dei Servizi, come il maggiore Antonello Angeli, Giuseppe Lipari, Rosario Piraino e Lorenzo Narracci, inseguiti da ipotesi varie di favoreggiamento, aggravato e in concorso, e altri diabolici commi tra l’impalcatura iniziale delle minacce al corpo politico-amministrativo dello stato, il perno del processo principale dove ha testimoniato perfino Giorgio Napolitano in carica. Un capolavoro tutto italiano.

Indagati «mascariati» per anni, nel privato e nella carriera, dalla gran cassa del professionismo anti-mafioso, ebbro del pupillo dei popoli niola e delle agende rosse. Il 31 dicembre infatti il gip Riccardo Ricciardi, ha accolto la richiesta di archiviazione della stessa Dda, firmata da alcuni pm del “pool trattativa” (meno l’ex leader Antonino Ingroia) il 15 aprile, con cui si intendeva chiudere quel filone dell’indagine perché, scava e scava, alla fine in mano era rimasta solo l’impronta delle «visioni» del figlio di don Vito. Il Massimo ultimogenito dell’ex sindaco mafioso di Palermo, nelle puntate della soap del gennaio-ottobre 2009 e del febbraio 2010, aveva detto, tra le altre cose, che i carabinieri andati a casa sua per una perquisizione non avevano verbalizzato il ritrovamento di alcuni elementi costitutivi del ‘papello’ (mitologico elenco in punta di scanner delle richieste della cupola) né altra documentazione comprovante l’ignominia dell’Italia prona alle lupare.

C’è stato il processo per la mancata cattura di Provenzano, per la mancata perquisizione del covo di Riina, ora si rischiava quello per il «mancato verbale» del papello: manca sempre qualcosa a quanto pare. Tutto archiviato perché, in sintesi, non è stato «rinvenuto alcun elemento idoneo a sostenere l’accusa in giudizio»: cioè, di ciccia manco l’ombra, dichiarazioni su dichiarazioni, indizi zero, parole e spifferi, all’incrocio di quelle dell’ex autista del pm Di Matteo, il maresciallo Masi, appena rinviato a giudizio in altro procedimento.

Dalla lettura delle 16 pagine del provvedimento licenziato l’ultimo giorno dell’anno dopo 8 mesi dalla richiesta (molti reati erano prescritti dal 2012, gli indagati potevano essere “liberati” molto prima, volendo), emerge la complessità della partita, giocata su altri tavoli, dove pure si rilevano rischi di duplicazioni di indagini o processi già chiusi o in corso d’opera, un reiterato bis in idem giunto a livelli preoccupanti tanto da far accelerare gli stessi pm, inseguiti dallo spettro di un’avocazione per inerzia della procura generale, che stava per giungere dopo i rilievi formalizzati dai legali di alcuni indagati, stanchi di sostare nel limbo delle decisioni.

Ciancimino jr, già inguaiato per le cicliche scoperte dei bluff somministrati in questi anni dai palchi dell’Italia dalla schiena dritta, sarà inondato da una nuova pioggia di denunce. Almeno questa è l’aria che tira tra Roma e Palermo. Per lui, ma pure per chi l’ha applaudito sorridendo.

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 23 gennaio 2014)

 

 

Peppe Rinaldi

Giornalista

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