Per chi voglia una conferma dell’attuale processo di omologazione dell’amministrazione ecclesiastica agli apparati burocratici statali, ne potrà trarre prova dal recente provvedimento di soppressione della diocesi di Montecassino. Dal 23 ottobre, infatti, quella che da quindici secoli è detta “Terra Sancti Benedicti”, la cui menzione si trova – è bene ricordarlo – nei primi documenti della lingua italiana, i placiti cassinesi datati anno 960, non è più sotto la giurisdizione spirituale dell’abate dell’Arcicenobio, ma del vescovo di Sora, Aquino e Pontecorvo che, da oggi, è anche vescovo di Cassino.
La giurisdizione dell’abate resta limitata al recinto del monastero, saepta come si ricorda con il termine in uso nella Regola di S. Benedetto, e sui monaci che lo popolano. Così è stato già fatto per Subiaco, S. Paolo fuori le Mura, Montevergine e Cava dei Tirreni. La circostanza singolare è che, nel caso di Montecassino, la sala stampa vaticana, per bocca del suo portavoce P. Federico Lombardi, ha scomodato il motu proprio di Paolo VI Catholica Ecclesia del 1976 sul riordino delle abbazie territoriali o nullius dioeceseos, di nessuna diocesi, secondo la formula tradizionale, per giustificarne il provvedimento.
La spiegazione sarà da ricercarsi nell’entità della soppressione (le 53 parrocchie di Montecassino non sono le 3 superstiti di Cava dei Tirreni), ma soprattutto nella valenza simbolica dell’atto. Quanto al richiamo al motu proprio, esso appare alquanto forzato, perché, se è vero che con quell’atto Paolo VI vietava per l’avvenire la costituzione di abbazie sottratte all’ordinaria giurisdizione di un vescovo, preservava quelle esistenti, disciplinandole in un territorio più adatto (aptius) alla nozione di “porzione di popolo di Dio” definita dal Concilio Vaticano II per le diocesi. E che il criterio di adeguatezza sia stato individuato sempre in un territorio omogeneo e contiguo all’abbazia è provato dal fatto che alla Badia di Cava, sottratte le parrocchie del Cilento e del Vallo di Diano, ne furono concesse tre “ritagliate” al vescovo dell’omonima diocesi di Cava. La motivazione ufficiale del provvedimento è individuata nel fatto che “la Chiesa ha sempre avuto particolare sollecitudine per la vita monastica e perciò il Concilio Vaticano II ha insistito sulla necessità di consolidare il ruolo dell’abate come padre della comunità religiosa, il cui ministero è dedicare la propria vita al monastero, senza essere occupato dalle attività proprie degli ordinari di circoscrizioni ecclesiastiche”, ma non si sfugge all’impressione che non siano più apprezzate deroghe all’ordinario governo episcopale. E’ vero che le esenzioni dal governo dei vescovi si consolidano nel medioevo come forme di sostegno all’azione riformatrice del papato, ma si sono anche trasformate nei secoli in un profondo rapporto con il territorio, specie in alcune zone letteralmente risanate dalla presenza benedettina (il Cilento ne è prova per Cava).
La “Terra Sancti Benedicti” a maggior ragione può rivendicare tale titolo, essendo tutta la sua storia, spirituale e materiale, legata all’abbazia fondata da S. Benedetto nel 529, nell’anno in cui Giustiniano, all’altro capo della romanità, avviava la codificazione del Corpus iuris, caposaldo di tutto il diritto occidentale. E la Regola benedettina, fatte le dovute differenze, dimostrava una valenza anche giuridica fondamentale per la definizione della stessa fisionomia dell’Europa. Lo stesso Paolo VI, nel riconsacrare il monastero e la basilica di Montecassino esattamente cinquant’anni fa, il 24 ottobre 1964, rivolgendosi ai vescovi presenti (si era ancora a Concilio aperto) esprimeva con l’afflato lirico suo proprio sentimenti più che di ammirazione. “E pace a voi, Fratelli della santa Chiesa, che venendo oggi con Noi su questa sacra montagna, sentite gli animi invasi dal corteo dei ricordi antichi, delle tradizioni secolari, dei vessilli della cultura e dell’arte, delle figure dei Pastori, degli Abati, dei Monarchi e dei Santi! Sentite, come torrente placato in fiume maestoso, dalla voce incantatrice e misteriosa, la storia che passa, la civiltà che si genera e si descrive, la cristianità che si affatica e si afferma; sentite qui vivo il respiro della Chiesa cattolica”.
“Il respiro della Chiesa cattolica” oggi considera opportuno recidere giuridicamente il rapporto plurisecolare tra l’abbazia e il suo territorio che tra l’altro, per configurazione e continuità, legittimamente rappresenta quella chiesa fatta di “pastori con l’odore delle pecore” che è sì uno slogan di papa Francesco, ma già formulato come imperativo all’abate nella Regola da S. Benedetto.
Il provvedimento di ridefinizione del territorio abbaziale reca anche la nomina dell’abate Donato Ogliari dell’abbazia pugliese di Noci a 192° successore di S. Benedetto. Anche questa è una novità se si considera che la nomina di Dom Donato Ogliari segue all’incorporazione nel 2012 della congregazione cassinese nella sublacense di cui Noci era parte. Così come con Dom Michele Petruzzelli, già priore a Noci, nominato a Cava, la scelta di Ogliari anche nei fatti segna “l’assorbimento” dei cassinesi nella nuova congregazione.
Non si vuole certo dire che esistano modelli concorrenti, tuttavia è innegabile la presenza di diverse tradizioni che oggi tendono anch’esse all’omologazione. Anche sotto questo aspetto è necessario ritornare allo spirito dell’omelia di Paolo VI che ai Benedettini chiedeva la custodia del patrimonio liturgico alla luce della novità conciliare. “Ve lo diciamo, esperti e desiderosi come siamo di avere sempre nella nobile e santa Famiglia benedettina la custodia fedele e gelosa dei tesori della tradizione cattolica, l’officina degli studi ecclesiastici più pazienti e severi, la palestra delle virtù religiose, e soprattutto la scuola e l’esempio della preghiera liturgica, che amiamo sapere da voi, Benedettini di tutto il mondo, tenuta sempre in altissimo onore, e che speriamo sempre lo sarà, come a voi si conviene, nelle sue forme più pure, nel suo canto sacro e genuino, e per il vostro divino officio nella sua lingua tradizionale, il nobile latino, e specialmente nel suo spirito lirico e mistico”.
Il ridimensionamento delle abbazie territoriali è passato anche attraverso l’abbandono progressivo di questa esigente consegna papale, che ha reso molte liturgie monastiche non dissimili da quelle celebrate in qualsiasi chiesa diocesana, modello ordinario oggi dell’essere chiesa.
Nicola Russomando
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