L’ultima volta che un padrino della camorra vuotò il sacco accusando avvocati e magistrati di essersi fatti corrompere per aggiustargli qualche processo, risale agli anni ’90. Non finì tanto bene, nel senso che le «clamorose» rivelazioni di “Lovigino”, alias dell’ex boss di Forcella Luigi Giuliano, su un presidente di sezione del tribunale del Riesame e di un membro della Camera penale, finirono nel nulla: per un anno e mezzo non si riuscì a trovare adeguato riscontro al racconto di mazzette e sentenze taroccate, tutti assolti.
Oggi, con un ex capo della malavita organizzata del calibro di Antonio Iovine, detto ‘O ninno (nella foto in alto al momento dell’arresto) passato come (quasi) tutti dall’altra parte della scrivania «perché il clan dei casalesi ormai non c’è più…», la scena si ripete, almeno nelle sue premesse: si tratta solo di vedere come andrà a finire, di tempo ce n’è, siamo agli inizi. The show must go on.
«Per essere assolto in Corte d’assise dall’accusa di omicidio tirai fuori 250mila euro. In tribunale a Napoli c’era una struttura che si occupava di aggiustare processi».
Dette così, per bocca di uno che neppure ricorda – a suo dire- quante persone abbia fatto fuori, son cose che fanno saltare dalla sedia. Di certo i primi a farlo saranno stati i magistrati di Roma, dove il verbale del «pentito» è stato trasmesso dai colleghi napoletani nei giorni scorsi.
Iovine, in parole povere, s’è scampato un ergastolo una volta e 30 anni un’altra, tirando fuori quattrini a volontà: 200 milioni di lire negli anni ’80 al tempo della guerra tra Cosa Nostra e Casalesi e 250mila euro più recentemente per ipotesi di omicidi legati all’eterna guerra tra clan.
Subito aperta un’inchiesta per l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari dal momento che la Capitale è competente -per legge -su tutto ciò che concerne i magistrati di Napoli. E gli accusati di Iovine sono, appunto, un magistrato e un penalista partenopei, logici destinatari delle attenzioni dei procuratori romani.
Figura centrale, a dire di ‘O ninno è un altro avvocato di Santa Maria Capua Vetere, Michele Santonostaso, egli stesso oggi recluso con l’accusa di favoreggiamento e concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Le accuse di Iovine sono contenute in un verbale depositato agli atti del processo in corso sulle minacce all’icona antimafiosa Saviano e alla senatrice Pd Rosaria Capacchione.
Antonio Iovine ha riferito anche di recente (lo scorso 26 maggio ha deposto a lungo dinanzi ai pm della Dda), che l’avvocato Santonastaso gli avrebbe detto che se avesse voluto sottrarsi alla galera a vita, dopo una condanna in primo grado all’ergastolo (parliamo pur sempre di omicidi di camorra di almeno 30 anni fa) avrebbe dovuto tirar fuori un bel pacco di soldi: «Così mi disse, accettai ovviamente. E infatti in secondo grado fui assolto». E così via in un altro caso (la condanna era a 30 anni) e chissà a quanti altri ancora: la così detta «discovery» in storie del genere è a rilascio lento, come un medicinale, anche al di là di ciò che c’è scritto nel «bugiardino», vale a dire che le medicine vanno consumate entro sei mesi. Ma questa è un’altra storia.
La patata bollente, ora, è il coinvolgimento dell’ex presidente della Corte d’assise d’appello di Napoli, Pietro Lignola. Il noto magistrato è già sotto processo a Roma per un’altra storia in cui gli vengono contestati la rivelazione di segreto d’ufficio e l’abuso d’ufficio aggravati dal vincolo mafioso. La prossima udienza del processo è fissata per il 10 luglio.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 19 giugno 2014)