ARCHIVIOLo stress dei magistrati vale di più: pensione d’oro a mamma De Magistris

admin17/04/2014
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Palazzo Spada Consiglio di stato

C’è il rischio che si apra una falla e che tutti vi si buttino a capofitto se il principio sancito dal Consiglio di stato in tema di reversibilità della pensione ed accertamento post mortem del nesso di causalità tra mansioni e decesso, diventasse riferimento costante: a distanza, cioè, di circa 12 anni dalla morte di un soggetto è possibile stabilire che l’evento sia stato determinato non solo da una patologia neoplastica od altro ma anche dallo stress accumulato, degenerato poi in malattia fisica, in conseguenza di un mestiere difficile ed usurante.

 

Guarda caso, quello del magistrato, nell’ambito di una decisione presa da altri magistrati: un po’ come con i tagli alle loro mega pensioni, subito cancellati dai guardiani della costituzione in tonaca nera dell’Alta Corte. 

In più: rebus sic stantibus -direbbero i magistrati stessi -la natura della patologia sofferta negli anni togati consegna al coniuge sopravvissuto il diritto all’ottenimento della reversibilità della pensione se c’è stata causa di servizio.

Ad aprire l’ipotetica falla, un genitore «blasonato», se tale possa definirsi la mamma di Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e, soprattutto, ex pm della repubblica italiana dal curriculum noto anche ai meno adusi alle storie di giustizia. 
Ma che cosa è successo? Dopo una lunga battaglia iniziata nel 2002 il Csm è risultato soccombente dinanzi alla pretesa giuridica della vedova De Magistris, signora Nunzia Russo, di vedersi riconosciuto il diritto alla reversibilità della pensione goduta dal marito Giuseppe, papà di Luigi ed anch’egli magistrato, a sua volta figlio di un magistrato secondo la genealogia di ampia parte delle famiglie dei nostri vincitori di concorso pubblico. La storia l’ha raccontata ieri il Corriere del Mezzogiorno.

La domanda di riconoscimento di causa di servizio e di pensione di reversibilità privilegiata fu avanzata il 27 dicembre 2002. Secondo la signora Russo, che si era rivolta al Csm, l’attività svolta dal marito avrebbe concorso significativamente in una brutta ipertensione arteriosa che avrebbe, poi, causato fenomeni ischemici di rilievo. Ma l’istanza fu respinta nel 2006 da una commissione di verifica e lo stesso ministero della Giustizia emanò un decreto con il quale l’equo indennizzo richiesto non fu accolto. Ora, essendo quello di via Arenula (anche) un organo amministrativo, ecco che entra in scena il Tar, cui la signora Russo si rivolge ottenendo un primo riconoscimento formale: infatti nel 2011, dopo «appena» altri 5 anni, il tribunale amministrativo considera fondata la lesione dell’interesse legittimo e del diritto della vedova a non subire decisioni viziate da eccesso di potere o da violazione di legge per il tramite del ministero della Giustizia. Tutto concluso dunque? Niente affatto, perché sia il Csm che il Guardasigilli si oppongono ricorrendo al Consiglio di Stato: secondo l’avvocato Lorenzo D’Ascia, patrocinante per conto dei due organi, non c’è stato alcun nesso causale tra il lavoro di De Magistris padre e la malattia occorsagli. A naso, una posizione logica non foss’altro perché il principio potrebbe valere per chiunque svolga un mestiere stressante. Ma siamo pur sempre in Italia dove, come si sa, esistono animali più uguali degli altri: la signora De Magistris non c’entra nulla in quanto tale, è il sistema in sé che suscita perplessità. Tra le tante. 

Con una sentenza del 18 marzo 2014, infatti, Palazzo Spada (foto) ha confermato la decisione del Tar respingendo i ricorsi di Csm e ministero. In particolare, il provvedimento si riferisce alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, il cardiologo Maurizio Cappelli Bigazzi. Il quale scrive: «L’ipertensione arteriosa deve essere ritenuta certamente una concausa efficiente nel determinismo (sic, ndr) della grave insufficienza cerebrovascolare che ha condotto al decesso. Lo stress lavorativo legato alle grosse responsabilità professionali del dottor de Magistris può certamente rappresentare una concausa, anch’essa efficiente, nello sviluppo dell’ipertensione arteriosa». 

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 17 aprile 2014)

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