Io, i miei errori e le Europee sembrerebbe il titolo dell’autobiografia di un maldestro latin lover americano alle prese con il gentil sesso del vecchio continente: ma la “e” in maiuscolo di “europee” tradisce il significato di un dramma personale che da politico si sta facendo esistenziale. Per nemesi.
Era il 31 dicembre scorso quando Antonio Di Pietro consegnò al Fatto le volontà attuali e future, completando la riflessione con un auto incoraggiante «Ho ancora una vita davanti» che manco quell’immortale di Berlusconi si sognava di ripetere nei momenti peggiori.
Il guaio è che quella «vita davanti» s’è capovolta d’incanto. Già, perché Di Pietro la sòla, stavolta, l’ha beccata lui considerando l’incipit dell’intervista rilasciata a Luca De Carolis, abbrivio di quelli tosti e sbrigativi, alla Di Pietro insomma. Che così esordì: «Mi candiderò alle Europee perché voglio riportare l’Idv in tutte le istituzioni». S’è visto: per ora non se ne parla, almeno non con un candidato che abbia quel cognome e quel nome perché del front man del giustizialismo italiano non c’è traccia in nessuna circoscrizione. Il mito di Cronos rovesciato, non il dio che divora i suoi figli ma questi che divorano gli avanzi del padre.
Semplicemente fregato, sistematicamente obliterato o candidamente consigliato di tenersi alla larga visto che, ormai, per un beffardo scherzo della storia, dire Di Pietro significa dire “impresentabile” (stando alla logica che ha animato la sua parabola professionale e politica)? Da qualunque angolatura la si osservi è così: Tonino, nonostante generosi sforzi per recuperare il «suo popolo» -che, peraltro, abbonda di sostituti anche più feroci e meno simpatici dell’ex poliziotto fattosi pm- non ce l’ha fatta a realizzare il disegno fissato sulle colonne del giornale di Padellaro&Travaglio. Raccontano a Libero alcuni insiders che sia stato ad un passo dal riuscirci e che se non ci fosse stata l’opposizione del gruppo napoletano-campano dell’Idv, oggi potremmo tutti osservarlo in corsa per un seggio a Strasburgo, peraltro non sconosciuto al politico Di Pietro che le istituzioni di cui sopra le ha praticamente assaggiate tutte. O quasi.
Ma perché il gruppo napoletano? Semplice, perché rappresenta l’ultima enclave “decente” sotto il profilo numerico rimasta nel partito che doveva, tra gli altri, moralizzare l’Italia. Ma il diavolo a volte raddoppia, rilancia il paradosso e moltiplica lo scherzo, perché la pattuglietta di esponenti in carica, l’Idv ce l’ha nel posto dove meno vorrebbe l’ex pm di Mani Pulite, cioè al comune di Napoli, puntello della maggioranza di quel Luigi De Magistris che, da sostituto procuratore come lui, indagò su tutti i politici italiani da destra a sinistra tranne che sull’uomo che lo ospitò nelle liste -manco a dirlo proprio per le Europee- cioè Di Pietro stesso.
Certo, erano 15 tre anni fa ed oggi sono rimasti in 6: non pochi comunque, se si considera che Napoli è la terza città d’Italia. I campani pare l’abbiano convinto a tenersi fuori per ragioni di opportunità, concetto spesso troppo elastico. Considerando che dopo il segretario nazionale, Ignazio Messina, capolista ovunque, c’è Nello Di Nardo al n. 2 della circoscrizione sud, si capisce che Di Pietro i due pesi e due misure stavolta li ha subiti. Di Nardo si è segnalato di recente per una guerra senza quartiere ad un assessore di De Magistris, Pina Tommasielli, invischiata in una storia di multe e favoritismi a parenti, costretta poi a dimettersi: analoghe richieste non giunsero, però, nel caso di suoi stretti parenti (di Di Nardo) coinvolti in vicende giudiziarie un po’ più complicate di banali contravvenzioni stradali cancellate ad un cugino, peraltro pure magistrato.
Ma è l’Italia dei valori: e nessuno può farci niente.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 18 aprile 2014)