ARCHIVIORinviare l’udienza di sette anni? La Cassazione dice che si può

admin28/02/2014
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Causa rinviata foto

Se il cittadino Mario Rossi si rivolge a un tribunale per vedersi riconoscere un diritto o per difendersi da un abuso non si scoraggi se il giudice rinvia l’udienza di sette anni (sette anni!). Perché il giudice lo può fare, è nelle sue facoltà, non commette alcun atto illegittimo. Soprattutto se l’ha fatto per poter meglio affrontare altre cause dal contenuto da lui considerato. più urgente. L’ha deciso la Cassazione, con una sentenza delle sue sezioni unite (la n.1516 del 16 novembre 2013-27gennaio 2014). Rinviare di sette anni, dunque, si può. 

Pare una battuta tragicomica, e invece è un provvedimento vero, adottato dai vertici della magistratura italiana nel suo massimo grado di giudizio.

I fatti da cui si è generato il tutto si sono svolti alla Corte d’Appello di Bologna. Dove sette magistrati del ruolo civile usavano rinviare le cause che avevano in discussione e/o decisione per un periodo che andava dai quattro ai sette anni. Magari anche con ragioni auto-evidenti che, però, nell’architettura del diritto trovano scarso significato: il gatto che sporca dinanzi alla finestra del vicino è di sicuro meno urgente di uno sfratto, di un’accettazione di eredità o di un divorzio tra coniugi con figli minori. Ma si capisce che il punto non è questo, almeno non solo. Tant’è che è stata proprio la Procura generale della Cassazione a sollevare l’8 marzo dell’anno scorso la questione chiedendo alla sezione disciplinare del Csm di punire i dottori G.P. , D.C.A. , D.M.D. , P.M. , R.F. , D.A. e A.R. (stupefacente l’ossequio della privacy in taluni casi) per illecito. In pratica, secondo l’accusa dei colleghi -di una loro parte, almeno- questi giudici non potevano rinviare le cause di così tanto, stracciando i già poco entusiasmanti record della durata media dei processi nel nostro paese. Veniva loro contestato, in particolare, un carico di lavoro analogo a quello dei loro colleghi i quali non procedevano con lo stesso lentissimo ritmo, smaltendo almeno cento cause all’anno e rinviando per periodi di gran lunga inferiori a parità di condizioni generali dell’ufficio. Apparente buon senso.

E dunque, il Csm che fa? Certo non decide di stupire con novità in controtendenza rispetto alla consolidata tradizione: infatti «assolve» i colleghi bolognesi ritenendo che l’illecito, non sia stato compiuto. Sostenendo in buona sostanza che non ci fosse prova che la censura mossa contro i magistrati di Bologna fosse fondata, nel senso che non si comprendeva con chiarezza quale fosse la condotta illecita (cioè il rinvio di sette anni) in rapporto al lavoro dei colleghi e, ancora, che non era stato dedotto che il metodo di lavoro contestato agli incolpati avesse comportato una diminuzione del numero delle definizioni delle cause stesse ed un conseguente allungamento della durata dei processi. In particolare, scriveva il Csm, non c’è alcun problema a rinviare di sette anni un’udienza «se la dilazione non appaia palesemente incongrua in relazione ai carichi di lavoro e alla difficoltà dei processi». Rinviare di sette anni anche la più banale delle cause deve risultare, in parole povere, «palesemente incongruo»: originale come ragionamento, ancorché legittimo. Peraltro, se sette anni non sono «incongrui» non si capisce cosa possa esserlo.

Contro questa decisione, come detto, ricorre per Cassazione il procuratore generale, mentre i magistrati coinvolti da sette passano a sei -la posizione di uno di loro nel frattempo è cambiata. Niente, medesimo risultato nonostante nel ricorso fosse stato messo nero su bianco, da altri magistrati, che quei rinvii apparivano ingiustificabili in relazione al non elevatissimo numero delle cause fissate. Non c’erano elementi, in pratica, per dire che un giudice che rinvia una causa di sette anni abbia «violato il dovere di laboriosità» o abbia assunto una condotta «negligentemente inescusabile» se questo fatto serviva a fare altri processi sorti dopo anni da quelli in trattazione. Che, normalmente, è obbligatoria.E’ la chiarezza del sistema giudiziario italiano.

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 28 febbraio 2014)

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