La “babele dei linguaggi” da metafora biblica a rappresentazione attuale dello stato della comunicazione anche nella Chiesa. Capita quando si ritrovano pronunciamenti episcopali contraddetti o superati da affermazioni di grado superiore, con vescovi con la vocazione all’ipertrofia della produzione di documenti e con l’evoluzione del magistero papale sotto papa Francesco. Un caso emblematico potrebbe essere rappresentata dal recente documento della Conferenza episcopale campana del febbraio 2013, “Evangelizzare la pietà popolare”, fatto proprio per decreto da mons. Moretti per la diocesi di Salerno ed in vigore dal nuovo anno.
A Salerno, all’atto della sua presentazione lo scorso novembre, il documento ha suscitato non poco clamore per le sue ricadute sulla processione di S. Matteo, l’evento cittadino globale. Caricatasi negli ultimi anni di valenze che poco hanno a che vedere con la religione, sulla processione di S. Matteo Moretti ha fatto già sentire la sua voce in opposizione a rivendicazioni politiche e di folklore, innestatesi sul tronco dell’autentica pietà popolare. Ed alcune disposizioni del documento, come l’imposizione di una durata massima per la processione di due ore e mezzo o il percorso limitato all’ambito parrocchiale appaiono in conflitto con la prassi del rito salernitano. E, inoltre, in riferimento alle paranze dei portatori, il decreto di mons. Moretti vieta categoricamente “danze e giravolte con le statue, durante e a conclusione della processione”.
Il documento dei vescovi campani, da cui muove il decreto di Moretti, cita come fonte di legittimazione l’esortazione del 1975 di Paolo VI Evangelii nuntiandi, dove della pietà popolare si denunciano i limiti nella misura in cui “è aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione, anzi di superstizioni”, se ne esalta anche la potenzialità, quando “manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono esprimere”. Con la conseguenza di tutta evidenza che la pietà popolare trova cittadinanza nella prassi ecclesiale se corrisponde alla fede dei semplici e dei poveri. La stessa citazione, nella sua parte positiva, si ritrova nella recentissima esortazione di papa Francesco Evangelii gaudium con conclusioni che appaiono però divergenti dagli assiomi dei presuli campani e di Moretti. Sarà forse da imputare alla particolare sensibilità di Bergoglio, formatosi alla scuola teologica del gesuita argentino Scannone, ma la lettura della pietà popolare del papa regnante è avulsa da ogni critica del fenomeno, anzi è definita “luogo teologico”.
E che sia una “lettura regionale”, di tipo sudamericano, è impressione confortata dai continui riferimenti alle conferenze dei vescovi latino-americani di Puebla del 1979 e di Aparecida del 2007, di cui Bergoglio è stato leader indiscusso. Conferenze regionali sì, ma di così strategica importanza per la cattolicità che i Papi stessi le hanno aperte, Giovanni Paolo II nel 1979, Benedetto XVI nel 2007, anche per evitarne le facili derive.
Papa Francesco, citando Puebla, sostiene che, con la pietà popolare, “il popolo evangelizza continuamente se stesso” e che essa è “autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio (…) realtà permanente, dove lo Spirito Santo è il protagonista”. Il problema è che la lettura regionale oggi s’impone come atto del magistero ordinario pontificio, cui gli stessi vescovi devono prestare il dovuto ossequio. E’ chiaro che le giravolte e le danze vietate dal decreto di Moretti non sono espressione autentica di pietà popolare, ma, a volere prendere alla lettera l’espressione di Bergoglio, si dovrebbe riconoscere anche a quelle il carattere di auto-evangelizzazione del popolo.
Tra i due documenti, pur nella radicale differenza di destinatari e di ambiti, si riscontrano divergenze di sensibilità e di cultura che sono il vero problema del cattolicesimo contemporaneo, un tempo ricomposte nell’unità della disciplina e della forma del culto. E, ammesso che nell’Europa secolarizzata residuino ancora forme autentiche di pietà popolare, è ben difficile che da queste la Chiesa possa ritrovare le ragioni di una sua presenza forte nella società. Anche perché mancano i grandi evangelizzatori della pietà popolare alla Sant’Alfonso de’ Liguori, per citare un esempio a noi vicino. Esempio peraltro che non è stato esente da incomprensioni e da letture deformanti. Infatti, in una visita a Pagani nel 1927 il giovane Montini, il futuro Paolo VI, registrava in una lettera ai familiari come la pietà popolare legata alla memoria del santo si manifestasse in un’«esteriorità così fanciullesca, così disadorna nelle sue goffe apparenze che non lascia a un forestiero valutare, senza sforzo di buona volontà, una parte delle forme religiose di queste popolazioni».
Giudizio tranchant, che, tuttavia, si mostrava parziale laddove non riconosceva che “talune tra le abitudini più sante e più dolci delle plebi cristiane del Mezzogiorno si devono a S. Alfonso de’ Liguori”, come scriverà nello stesso torno di anni sull’Osservatore Romano, all’opposto, mons. Giuseppe De Luca, intellettuale cattolico di origine lucana tra i più impegnati tra gli anni ’30 e ’60 del Novecento.
Divergenze di lettura della pietà popolare tra due finissime menti cattoliche, ma pur sempre italiane anche se contrassegnate da esperienze e da formazioni diverse. Quanto più oggi in un mondo che, seppur globalizzato, almeno nelle espressioni della fede può conservare legittime differenze a patto che non si voglia elevare un criterio di giudizio a discrimine per il tutto e al di fuori di ogni definizione magisteriale. E’ il caso della pietà popolare, forma di evangelizzazione spontanea per Francesco, potenziale veicolo di deformazione della religione per Moretti e per i vescovi campani.
Nicola Russomando
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