ARCHIVIONapoli, San Gennaro e il tesoro che fa invidia alla Regina

admin02/11/2013
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Napoli Tesoro San Gennaro

C’è un Dudù più importante, certamente più conosciuto del cagnolino della dama del cavalier Berlusconi. Si tratta dell’indimenticabile personaggio incarnato da Nino Manfredi, Armandino Girasole detto «Dudù» nell’altrettanto indimenticabile film di Dino Risi (con Totò e Senta Berger, tra gli altri) intitolato «Operazione San Gennaro».

 

Era il 1966, sono passati 47 anni da quell’esilarante tentativo cinematografico di rubare -senza riuscirvi- l’unica cosa che veramente sta a cuore ai napoletani, oltre al mare, alla pizza, al sole e al bel canto.

Parliamo del tesoro del santo martire, una ricchezza incommensurabile frutto di oltre sette secoli di donazioni di re, papi, regine, marchesi, duchi, capi di stato, ministri, parlamentari, popolani, borghesi e, soprattutto, plebei, tutti accomunati da un tratto indelebile: la fede sconfinata per San Gennaro, il cui sangue si liquefa tra gli applausi e le lacrime dei devoti in un duomo zeppo di gente come un uovo ogni anno. O quasi.

La ricchezza nella ricchezza, il sangue, che moltiplica una fortuna incalcolabile, superiore a quella della corona d’Inghilterra e dello zar di Russia e che oggi, in un’inedita «operazione san Gennaro» è parzialmente in mostra a Roma a Palazzo Sciarra, sede della “Fondazione Roma” (nella foto da roma.repubblica.it), guidata da Emmanuele Emanuele, in pratica l’autore del miracolo che non riuscì alla banda di Totò e Manfredi: spostare il tesoro da un luogo ad un altro. Con rigidissime procedure di sicurezza e scortato da uomini armati manco fossimo in Afghanistan (oltre che con polizze assicurative dal premio irriferibile) 70 pezzi della collezione sono ora in mostra per i visitatori universali di Roma. E ci resteranno fino al 16 febbraio. Sempre che il santo dall’alto protegga il tutto. Certo, la cosa più facile da immaginare ora sono le decine di fedeli napoletani che pregano, nei bassi come in case principesche, affinché non accada nulla, che nessuno osi contaminare ciò che, peraltro, non appartiene né allo Stato italiano né alla Chiesa di Roma ma esclusivamente alla città di Napoli. Potrà verificarsi qualsiasi calamità, si potrà aver necessità di somme enormi di danaro ma nessuno oserà mai metter mano al tesoro, non lo fanno i camorristi, men che meno lo farebbe un politico: non resterebbe traccia di loro nel volgere di poche ore. Non è (solo) leggenda ma un dato di fatto.

Dal buio del caveau del Banco di Napoli, dove non tornerà al rientro da Roma -sarà messo direttamente nella Cattedrale in specialissime teche antifurto- fino a Roma, sono «atterrati» 70 pezzi unici su un totale di 21.610, tanto per dar l’idea di ciò di cui parliamo. Tra essi spiccano: la Mitra ornata con 3.964 pietre preziose, tra diamanti, rubini e smeraldi commissionata da re Carlo II D’Angiò al maestro Matteo Treglia per i festeggiamenti dell’aprile 1713, esattamente tre secoli fa; il mitico San Michele Arcangelo che sguaina la spada; l’esercito di santi in argento che avrebbero dovuto far da spalla a S. Gennaro nelle sue opere di bene per i napoletani; l’atto notarile del 13 gennaio 1527 con cui l’intera città s’impegnava a costruire una nuova cappella in onore del suo protettore che l’aveva salvata dalla peste, dalla guerra e dal Vesuvio; e la famosa collana che dal 1679 al 1993, ha continuato ad arricchirsi di doni come la croce in diamanti e zaffiri di Maria Carolina d’Austria, fino all’anello che Maria Josè, moglie di Umberto di Savoia si sfilò dal dito, davanti all’immagine di San Gennaro.

Un Savoia che si piega dinanzi al santo, il massimo per un (borbonico) napoletano. Un modo come un altro per aggiunger valore al valore.

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 2 novembre 2013)

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