ARCHIVIONovaetveteraLiturgia, fede e latino: quel trinomio che (spesso) non vogliamo vedere

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Cava convegno AMCI

“Sono convinto che gran parte della crisi attuale della Chiesa, dipenda dal crollo della liturgia”: così scriveva Ratzinger nel 1997 ne “La mia vita”, con una dichiarazione destinata a produrre un vivace dibattito, che nel corso del suo pontificato ha dato espressione ad uno dei documenti magisteriali più controversi quale il motu proprio Summorum Pontificum per la liberalizzazione del Messale Romano ante riforma liturgica.

 

La conferenza tenuta, invece, a Cava nella festa di S.Giuseppe Moscati il 16 novembre presso la chiesa di S. Vito martire dall’abate Ildebrando Scicolone del Pontificio Ateneo S. Anselmo della Confederazione Benedettina, istituto dedito allo studio della liturgia, “specialità” dei Benedettini, è stata rivolta alla celebrazione dei cinquant’anni della Sacrosanctum Concilium, con cui al Vaticano II si pose mano alla riforma liturgica. Organizzata dall’Associazione dei Medici cattolici di Amalfi – Cava, per impulso dell’ex allievo benedettino Giuseppe Battimelli, la lectio di Scicolone ha concluso le riflessioni del sodalizio nell’anno della fede sul tema “Liturgia e vita” (nella foto il gruppo dei relatori dopo il dibattito).

La riflessione di Dom Ildebrando infatti si è risolta tutta nell’esaltazione dei progressi attuati dalla riforma liturgica, sin dall’auspicio formulato nella costituzione conciliare di una “partecipazione piena, consapevole e attiva” dei fedeli alla celebrazione del Mistero eucaristico. Indubbiamente, sul significato autentico del lemma “actuosa participatio” sono stati versati fiumi d’inchiostro sin da quando Pio X, agl’inizi del Novecento, pose i termini della questione. La partecipazione attiva per Scicolone, come per gran parte dell’esegesi della discontinuità, è innanzitutto comprensione del linguaggio, dei gesti e delle parole, con previo bando del latino che non soddisfa nessuno di questi criteri, ma in contrasto con la stessa lettera della costituzione che conserva l’uso del latino “nei riti latini”, temperata solo dalla concessione della “usurpatio” della lingua “vernacola” per alcune parti della Messa.

Quello che Scicolone ha definito “compromesso diplomatico” tra i Padri conciliari, registra nella realtà tutto il travaglio che porterà al Novus Ordo Missae del Messale di Paolo VI e alla pratica abolizione del latino, propugnata dalle Conferenze episcopali, in nome della onnicomprensiva “partecipazione attiva”.

“Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il maggior numero di persone il più spesso possibile”: scrive sempre il prof. Ratzinger nel 1999, questa volta nella “Introduzione allo spirito della liturgia”, tesi che riprende anche da Papa in occasione del messaggio al Congresso eucaristico di Dublino nel 2012. Non è sembrato infatti che l’interpretazione di Scicolone si discosti da questo paradigma del coinvolgimento “attoreo” dei fedeli nella celebrazione eucaristica. Sin da quando ha mimato quella che era la forma della consacrazione nel Vetus Ordo, con le ipsissima verba Iesu pronunciate submissa voce dal celebrante nell’adorazione del Mistero eucaristico da parte dell’assemblea, di cui è attore Cristo stesso attraverso il sacerdote non certo l’assemblea che pure ne è destinataria.

Il Mistero va adorato nel silenzio, sosteneva Cirillo di Alessandria, e sembra che nell’acribia di ricerca delle fonti autentiche della liturgia, di cui il nuovo Messale pretende di essere il risultato, si sia perso di vista proprio l’essenziale, l’adorazione. Altro segno che per l’abate Scicolone è traccia “romano-centrica” nell’antico Messale, quindi da rigettare sotto il segno dell’incomprensibilità, è la Quaresima scandita dalle stationes presso le varie chiese romane, sulla prassi delle antiche celebrazioni papali. Anche qui il Ratzinger teologo della liturgia ha detto la sua, e in modo molto convincente, quando a proposito dei simboli da inculturare ha scritto che “nel concorso di cultura e storia, la precedenza spetta alla storia”. E il senso è che la fede ha una sua forma di espressione storica che ha plasmato il Cattolicesimo romano con tutta l’eredità del mondo classico, ivi compresa la prassi liturgica della Chiesa di Roma e del suo Vescovo che si è imposta pressoché a tutta la Chiesa latina.

E di una circostanza Scicolone si è reso interprete involontario, allorché, nel ricordare le parole del canone romano, oggi preghiera eucaristica I del nuovo Messale, quella che dal IV secolo in poi ha attualizzato il Sacrificio della Croce in ogni Messa, rivolgendosi al clero presente ha constatato come le parole della consacrazione del calice, et hunc praeclarum calicem, fossero praticamente sconosciute, travolte dalla versione aggiornata e seriale delle preghiere eucaristiche ordinariamente in uso. Oblio da imputarsi forse alla stessa “prolissità” del canone romano con la sua teoria di testimoni della fede, apostoli e martiri, ma ancora di più per “la resa plastica” di ogni gesto compiuto da Gesù in novissima coena. Una prova convincente questa e data in re ipsa di quanto, con l’allontanamento dalla lettera della Sacrosanctum Concilium, si sia perduto della liturgia, nel sostegno ad una partecipazione attiva scaduta a partecipazione esterna e con l’avallo a quella ermeneutica della discontinuità del Vaticano II, per cui, con gli argomenti di Scicolone, sembra che la vera prassi liturgica si sia affermata solo con il nuovo Messale.

Restano, al contrario, decisive le espressioni di Benedetto XVI nella lettera ai Vescovi di tutto il mondo di accompagnamento a Summorum Pontificum: “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”. Una lezione che sembra essere stata dimenticata proprio dai Benedettini e dal loro Ateneo teologico, in cui si discetta anche dell’abrogazione del Messale di S. Pio V, negata esplicitamente dal documento magisteriale della sua liberalizzazione, con un progressivo e sistematico allontanamento dell’Ordine dal latino non solo della Messa, ma anche dell’ufficio. E con buona pace dell’accorata supplica che Paolo VI rivolse ai monaci per la consacrazione di Montecassino nel 1964 di “conservare la nobile lingua latina, insieme lirico e mistico” per beneficio di tutta la Chiesa.

Per il resto vanno ascritte a lode dell’abate Scicolone le prodigiose doti di memoria con cui ha recitato alla lettera interi passaggi della costituzione conciliare, come pure la simpatica verve con cui si è impegnato anche nella polemica con il liturgista mons. Nicola Bux, assertore del Vetus Ordo, già consultore dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, avvicendato di recente insieme con il salernitano don Mauro Gagliardi per volontà di papa Francesco.

Nicola Russomando

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