ARCHIVIOIl perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti

admin27/11/2013
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Innocente in galera

In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di carcere. E’ possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari

 

Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario.

La vicenda è intricata. 

Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il «mitico» art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi di imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. 

La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che -chissà perché scovato a Bologna- fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem.

Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’assise di Foggia.

Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di 6 mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare con su scritto “Un milione di euro”: tanto hanno chiesto nel 2010 -quando tutto è passato in giudicato- cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 27 novembre 2013)

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