Nel salone dei marmi del Municipio di Salerno si è tenuta la presentazione del saggio di Andrea Riccardi “La sorpresa di Papa Francesco” alla presenza dell’autore e di un parterre d’eccezione, con il cardinale Sepe, arcivescovo di Napoli, come rappresentante ecclesiastico di rango, il sindaco di Salerno De Luca, il rettore della locale Università Tommasetti, il direttore de Il Mattino Barbano, il presidente della Comunità di S. Egidio Impagliaccio, tavola rotonda moderata da Angelo Scelzo, vicedirettore della Sala stampa vaticana e organizzata da Armando Lamberti ordinario di diritto costituzionale all’Università di Salerno.
Andrea Riccardi, storico della Chiesa di lungo corso, cui si devono contributi fondamentali su Pio XII e sui rapporti tra Chiesa e politica in Italia con Il partito romano, per l’occasione ha dismesso i panni dello storico per assumere quelli del profeta. Perché scrivere di un pontificato appena iniziato, pur sotto il segno della sorpresa, non è compito che si addice ad uno storico piuttosto comporta una notevole dose di profezia, non avulsa peraltro dal contesto religioso. O forse sarebbe il caso di appellarsi alla “prognosi” con cui Tucidide, tra i massimi storici dell’antichità, credeva di avere trovato il metodo per l’analisi dei fatti in divenire sulla scorta di quelli pregressi. In ogni caso, in uno momento in cui gli scaffali delle librerie traboccano di instant book su papa Francesco, il saggio di Riccardi si segnala per il retaggio dello storico accreditato degli ultimi pontificati. E la presentazione d Salerno potrebbe essere compendiata su tre parole emerse con frequenza nel corso del dibattito: povertà, autoreferenzialità, globalizzazione.
Tre parole per rispondere anche allo stile omiletico di Francesco, che, come ironicamente ha ribadito lui stesso, corrisponde all’abitudine dei Gesuiti, di concentrarsi su tre sole cose per volta. Povertà: è diventato ormai il leitmotiv di tutto il pontificato da quando si è udita l’affermazione del Papa “come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”. Cosa questo realmente significhi è difficile da stabilire. Non a caso Riccardi cita nel suo libro il cosiddetto “patto delle catacombe”, con cui alcuni vescovi, per lo più sudamericani, nell’ultima sessione del Concilio, s’impegnarono a distribuire i beni delle loro chiese ai poveri. Patto rimasto sulla carta, secondo l’affermazione del cardinale Sepe, salvo forse per il vescovo di Recife in Brasile, Helder Cámara, che da sottoscrittore prese l’impegno sul serio. E lo stesso Sepe, nel definire il saggio in presentazione “necessario”, ne ha auspicato l’invio ad alcuni confratelli per richiamarne l’attenzione sui capitoli sulla povertà, affermazione che marca la distanza dal Sepe segretario generale del Grande Giubileo del 2000, alla cui organizzazione si deve, secondo il giudizio di Ratzinger, la trasformazione dell’evento religioso in una macchina di eventi. Se poi per povertà s’intende la distribuzione dei beni ecclesiastici ai poveri una volta per sempre, non si comprende come possano realizzarsi forme di aiuto come quello disposto dal Papa per le Filippine devastate dal tifone attraverso il pontificio consiglio Cor Unum nell’ordine di 150.000 dollari statunitensi.
In realtà sembra che la povertà debba manifestarsi in primo luogo nel ridimensionamento dell’ars celebrandi, laddove la profusione di ricchezza è dovuta a Dio in nome dello studium pulchritudinis, che è la forma biblica dell’adorazione di Dio, con celebrazioni essenziali, gesuitiche, in dialogo con gli uomini. E Riccardi ha gioito nel rivedere lo scabro pastorale conciliare di Paolo VI, sostituito da Benedetto XVI con quello “aulico” di Pio IX.
Autoreferenzialità: anche questa suona come parola d’ordine del pontificato di Francesco. Una Chiesa autoreferenziale rinuncia alla missione, si chiude su se stessa, riducendo la fede ad ideologia. Di qui la polemica con “i cattolici del Logos”, in cui molti hanno visto un esplicito riferimento all’incontro fede-ragione propugnato da Ratzinger. La Chiesa “ospedale da campo” individuata da Francesco è in linea con una terapia d’urto che poco concede a disquisizioni sui principi non negoziabili, su cui pure ha esercitato la sua partenopea ironia Sepe. Tuttavia è pur sempre da verificare se la prescrizione risulterà idonea a riscattare il cattolicesimo occidentale da quel grigiore, come ha detto Riccardi, in cui si ritrova avviluppato. Il vescovo callejero di Buenos Aires procede, ora come Vescovo di Roma, sulle strade del mondo e nell’incontro con l’umanità globale nell’abbattimento della menda dell’autoreferenzialità della Chiesa. Come domenica scorsa a S. Pietro nella distribuzione del “farmaco della misericordina”, episodio su cui Barbano, con spirito evemeristico, si è chiesto se rientri in una strategia di marketing o attenga ad una delle forme di apostolato prescelte. Di sicuro, in tema di annuncio e di missione, una lettura chiara delle intenzioni di Francesco potrà venire dalla sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium di prossima pubblicazione, che può ben dirsi il primo documento magisteriale di sua concezione e firma.
Globalizzazione: su questa parola è intervenuto di recente Francesco stesso in un’omelia di S. Marta. Ha polemizzato con “il progressismo adolescenziale” e con “la globalizzazione dell’uniformità egemonica” in riferimento all’ellenizzazione del popolo ebraico descritta nel I libro dei Maccabei. Il riferimento alla globalizzazione dell’uniformità è stato sollevato da Impagliazzo in ragione della particolare sensibilità della Comunità di S. Egidio, impegnata in vari scenari mondiali e, non di rado, in concorrenza con la stessa diplomazia vaticana. Il Papa però ha lanciato i suoi strali tanto all’ansia di progresso, che si connota come adolescenziale nella misura in cui è parte di un desiderio di avanzamento a tutti i costi, dei rerum novarum studiosi, per dirla con l’elegante stile della curia romana di un tempo, quanto all’uniformità che risulta dall’egemonia della globalizzazione. E il discorso di S. Marta indica nella tradizione l’antidoto alla massificazione di cui è espressione la società contemporanea. Il presidente di S. Egidio ha però evidenziato la dimensione sociologica della città globalizzata, teatro di azione di una Chiesa fatta per la città, concepita per l’incontro con gli uomini. Un incontro che si nutra di “ciò che fa ardere il cuore” per dirla sempre con Francesco, ma che, sembra di capire, riscopra anche la tradizione come punto di ancoraggio alla deriva del progressismo adolescenziale, che non è più smania di un’età, ma malattia d’interi gruppi di pensiero.
In chiusa la solenne dichiarazione di Riccardi per cui in un momento avvertito come oscuro per la Chiesa, l’Italia e il mondo è sorta la luce di Francesco a diradare la caligine del tempo presente. Benedetto XVI aveva detto, nel suo primo discorso alla Sistina, che compito del Papa è far risplendere la luce di Cristo, non la sua. Immaginiamo che le parole di Riccardi siano da interpretare in questo senso.
Nicola Russomando
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