Il prossimo pubblico ministero a caccia di gloria potrà limitarsi a richieste di sequestro, custodia cautelare o intercettazioni solo nei confronti del Papa. Perché tutto è già stato possibile. Solo così potrà battere i record di Luigi «Giggino» De Magistris, prima pm, poi europarlamentare, infine sindaco di Napoli. Ripetiamo: Napoli, non un paesino di chissà quale angusta e sperduta catena montuosa.
C’era bisogno di chi mettesse in fila, desse un senso logico e fornisse adeguata verve polemica alle ardimentose gesta di “Giggineddu flop” (copyright calabrese) per farsi un’idea di cosa significhi l’esercizio dell’azione penale in Italia. Alla fine, è spuntato fuori. Si, perché a leggere le oltre 400 pagine di “De Magistris. Il pubblico mistero” (Rubbettino editore, euro 15,00, in foto) scritto da Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo non puoi far altro che una cosa: pregare il Padreterno di non incontrare mai un magistrato del genere sulla propria strada. Scegliete una pagina a caso, puntate l’indice con gli occhi chiusi e di sicuro troverete la storia di qualcuno che da quando ha incrociato De Magistris praticamente non vive più. Non ne manca nessuno, ci sono tutti nel meticoloso lavoro che ieri ha esordito in libreria.
Lo lascia intendere anche Filippo Facci che ne firma un’allucinata -e, a tratti, esilarante- prefazione. Allucinata perché finanche uno come lui, cresciuto a politica, giornalismo e carte giudiziarie (versante opposto al modello «topo di procura») e che del così detto manipulitismo conosceva tutto, afferma che non immaginava potesse esistere un magistrato del genere. Solo un altro, meno prolifico ma altrettanto immaginifico, Antonio Ingroia, lo ha surclassato nella gara a chi alzava di più l’asticella della «militanza giudiziaria» dinanzi a un pubblico con i lucciconi per l’avvento della giustizia in questo marcio mondo: sarà stato un caso ma i due, prima della rottura successiva al default della straniante “Rivoluzione Civile”, erano pappa e ciccia. Non i soli, ma tra i più rappresentativi del network di pm che tiene in ostaggio il Paese da un bel po’ e che fa da sfondo al libro. Poi, magari, finirà alla Churchill, il coccodrillo li mangerà per ultimi, insieme ai tanti laudatores in politica e nel giornalismo ma intanto li sta già assaggiando, a partire proprio da lui che -come descrive ottimamente il libro- sta sperimentando cosa significhi sentirsi chiedere da un pm: «Scusi lei, ma perché quei soldi non li ha utilizzati per riparare le buche stradali piuttosto che…», come se l’amministrazione la decidesse un pm. Certo, è una domandina rispetto a quel che è stato capace di fare od omettere lui, ma pur sempre l’antipasto del cenone imminente.
Tant’è che l’opera dei due scafati giornalisti (Chiocci è il direttore del Tempo, dopo esser stato per anni inviato d’assalto del Giornale; Di Meo è uno che la nera e la giudiziaria la mastica da bambino e che ha permesso con le sue inchieste giornalistiche a mediocri di successo come Saviano il saccheggio dell’archivio) ripercorre tutta la sua epopea: da quando l’accompagnarono a Catanzaro mamma e papà magistrato (ovviamente, figlio e nipote a sua volta di magistrati) per prender possesso della sede, fino ai giorni della vittoria che «scassò» Napoli e delle inchieste subite, della vita da sindaco, l’interregno da europarlamentare e una bella intervista finale. Dove ritrovi il solito Giggino, leggermente meno narciso, più umano forse perché provato dalla vita vera senza il paracadute della toga, ma con l’eterno pallino: se stesso.
Nel mezzo le vite distrutte, le aziende mandate a ramengo, il ritorno a Napoli, lo scontro con il Csm e con l’intera categoria, l’ossessione dei poteri forti, i rapporti opachi con Di Pietro e con alcuni testimoni di giustizia, la mania persecutoria, il disastro informatico e giuridico con Gioacchino Genchi, i magistrati che stavano per ammanettarsi l’un l’altro tra Salerno e Catanzaro, gli effetti collaterali dello scontro nelle vite anche di bambini, la presidenza della repubblica trascinata nel fango, Prodi che crollava. Insomma, un macello.
Che Chiocci e Di Meo non trascurano di incidere a futura memoria. Lasciando a chi leggerà una sola sensazione: che peggio di De Magistris ci sia solo chi l’ha applaudito in tutto questo tempo.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 10 ottobre 2013)