C’è una famiglia italiana che dal 1975 attende di sapere se abbia o meno il diritto ad una quota d’eredità lasciata dal capostipite ed in che termini. C’è una figlia naturale del defunto che -pure lei 38 anni fa- s’è rivolta ad uno di quei palazzi dove a caratteri cubitali c’è scritto “La legge è amministrata in nome del popolo” o “La legge è uguale per tutti”, per sapere se un pezzetto di quel patrimonio le spetti oppure no. Il “palazzo” ora in questione è il tribunale di Salerno (ma varrebbe ovunque) dove, con un’evidenza regalata dal mero dato cronologico, il personale addetto sembrerebbe in altro affaccendato. Ma in Italia, si sa, il problema di questo Moloch schiaccia-persone non esiste: e se proprio esiste è solo per farla scampar bella ad un noto evasore fiscale amante delle donne. Per costui, s’è visto, viaggiano alla velocità della luce. Ma tant’è, vediamo di raccontare.
Nel 1975 un imprenditore originario di un paese delle provincia di Salerno, muore lasciando agli eredi i beni propri e di famiglia. Avendo avuto una relazione adulterina dalla quale era nata una figlia, circostanza non rara dall’alba dei tempi e fino alla fine degli stessi, l’uomo ebbe la sacrosanta idea di inserire nel testamento anche la bambina: cioè, alla propria morte, un tot dell’eredità sarebbe dovuto andare a lei. Com’era giusto che fosse. Nel 1975 il diritto di famiglia era in fase di riforma con tutto il suo portato di incidenza dei diritti patrimoniali all’interno dell’asse ereditario per i figli cosiddetti illegittimi. Ma non è questo il cuore del problema, almeno non ora. E’ invece la spaventosa lunghezza di questa causa, prossima al quarantennio, che in sé griderebbe vendetta per il trattamento ricevuto da un pugno di cittadini dalle cui tasse, si presume, è prelevata la quota per pagare stipendi a giudici, cancellieri e passacarte vari.
Ora l’azione per la divisione della comunione ereditaria viene avviata 38 anni fa dalla ragazza contro i germani (fratelli) figli legittimi del defunto. Si va in tribunale, dunque, e cosa succede? Assolutamente niente: il giudice affidatario del fascicolo, quel giorno presente sul lavoro, ordina una prima consulenza tecnica d’ufficio, è la prassi. L’incaricato, un agronomo, deve fare la cosa più semplice di questo mondo: ricostruire e ripartire le quote per ognuno. Una volta fatta la perizia, ovviamente pagata con danaro pubblico, ne viene ordinata un’altra: è legittimo che le parti non possano trovarsi d’accordo (altrimenti che ci vanno a fare in tribunale?), meno legittimo è che si cominci con rinvii stratosferici. Casi così, normalmente e se il personale lavora, si definiscono in tre o quattro anni al massimo: che è pur sempre un tempo lunghissimo per chi attende giustizia. Viene quindi ordinata un’altra perizia, stavolta il fortunato è un ingegnere: ma la perizia è sbagliata, nuovo rinvio, diritti e doveri ancora da definire ma pagare il consulente e lo stipendio al magistrato nessuno si sogna di metterlo in discussione. Poi si vedrà.
Infatti la cosa si verificherà per altre due volte, identica a se stessa tra errori tecnici e disaccordi conseguenti: in tutto quattro consulenze (le famigerate Ctu) a partire dal 1975 che, oltre ai professionisti redattori, non si capisce a chi o a cosa siano servite dal momento che bisognerà attendere il 2011 per arrivare ad una sentenza di I grado che darà torto alla ricorrente. La faccenda, purtroppo, neppure finisce qui, perché i figli della donna che avviò l’azione (nel frattempo deceduta a sua volta) propongono appello contro la sentenza di primo grado.
Si fissano le udienze e che cosa ti va a succedere? Che il consigliere istruttore (cioè il magistrato) non si presenta: ovviamente non deve spiegazioni a nessuno, né esibire certificati medici né altri giustificativi come per i comuni mortali dipendenti dello stato. Primo rinvio di un anno. Giunti alla data, dello stesso consigliere istruttore non c’è traccia, pare fosse occupato in una delle tante commissioni (?) operanti qua e là nei nostri palazzi pubblici. E un sostituto? Figuriamoci. Nuovo rinvio, stavolta di un anno e mezzo: il giorno dell’udienza il magistrato era occupato per ragioni private. Private? E dunque? Niente, non fiati una mosca e si fissi la prossima udienza. Così com’è poi andata: la data è del maggio 2014. L’eventualità di finire in Cassazione è verosimile: ma, in quella data, forse ci saranno i cyborg in giro, chissà. L’avvocato di una delle parti, il salernitano Matteo Pisani, allarga le braccia e dice a Libero: «Se saremo vivi alla fine di questa storia e se ancora esisterà, faremo ricorso alla Cedu per la “irragionevole durata” del processo». Irragionevole?
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 7 settembre 2013)