“Sapete giudicare la faccia della terra e del cielo e come mai non sapete giudicare questo tempo?” Su questa domanda posta da Gesù alle folle nel Vangelo di Luca ha preso le mosse l’intervento dell’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti all’incontro “Dio, io e gli altri”, organizzato dalla parrocchia di Gesù Risorto all’Arbostella di Salerno, nel contesto di “Arbostella teatro” il 29 agosto.
La presentazione alquanto glamour della parrocchia, retta da un anno da D. Nello Senatore, dopo la lunga stagione da “Spirito del Concilio” del predecessore D. Enrico Vignes, ha evidenziato che l’incontro è stato concepito dal gruppo “fede e cultura” della stessa, con un’articolazione che riflette la concezione burocratica in auge nella Chiesa contemporanea con attribuzioni di competenze per commissioni e comitati. L’intervento di mons. Moretti si è, invece, sviluppato su un crinale insolito, quello del binomio fede-felicità.
Se è assodato che la fede di per sé è risposta alle inquietudini dell’uomo contemporaneo, fede che si sostanzia nell’incontro materiale con la persona di Gesù, come ha sottolineato Moretti ricorrendo alla felice formulazione di Benedetto XVI, non è così scontato la sua traduzione in termini di felicità. Né Gesù, nella sua predicazione, è mai ricorso a tale termine, quanto piuttosto a quello di beatitudine in opposizione alle categorie del mondo. Ed è per la dicotomia mondo-fede che il presule ha fatto ricorso alla domanda iniziale del Vangelo per invitare i credenti al discernimento del momento storico, non per sovvertirne il corso, quanto per reclamare quello spazio che la fede impone anche in un modello di “società liquida”. Dunque capacità di riconoscere “i segni dei tempi” che colloca l’avventura del cristiano nel tempo e nella storia con tutte le conseguenze per una partita, la vita, che si gioca qui e una sola volta, e nella prospettiva del giudizio finale nei termini descritti da Gesù nel capitolo XXV del Vangelo di Matteo.
Detto altrimenti e nella sequela della scuola ratzingeriana, dell’esperienza della vita di un uomo resta quello che un’anima immortale ha saputo suscitare in un’altra anima immortale, ovvero il frutto di “amore, di conoscenza, di gesto capace di toccare il cuore” dell’altro. La lettura del momento storico tuttavia impone il coraggio di riappropriarsi dell’identità suggerita dalla fede, in termini di testimonianza e anche di chiarificazione degli elementi che le sono propri. Già nella famiglia naturale a cui compete la riscoperta del proprio ruolo, anche nella dialettica tra chi aspira a diventare famiglia nel difetto degli elementi costitutivi e chi famiglia lo è, ma tende ad attenuare il proprio status. Sicchè, anche per il discorso sulla felicità legato alla fede, Moretti ha voluto proporre la sua esperienza di “vescovo stracontento”.
Stracontento perché vive l’esperienza della fede nel contatto con gli altri, con una realtà diocesana di grandi potenzialità pur tra le difficoltà della comunione tra le sue varie anime, convinto però della necessità di passare da un vincolo di collaborazione ad uno di corresponsabilità tanto nel clero quanto tra i laici. E, a supporto della tesi, ha ricordato come la questione non si giochi tanto su un cambio di mentalità, ma su un cambio di cuore, il famoso “cuore di carne” contrapposto al “cuore di pietra” di cui parlano le Scritture come dono di Dio. Un riferimento questo che è stato concepito come risposta alla domanda sul corso di trasparenza da lui inaugurato in diocesi da tre anni a questa parte, e che consiste nella riaffermazione dell’ordinarietà della vita ecclesiale, come lui stesso ha voluto rimarcare con forza. Dunque la felicità della fede per Moretti è la riscoperta dell’ordinario nella prospettiva della sua destinazione finale, il giudizio sulle opere. E, a proposito di momenti ordinari, che tuttavia recano l’impronta del divino, ha ricordato un episodio decisivo per la sua esperienza di sacerdote e di vescovo, allorché nella confessione di una giovane penitente dalla vita già vissuta tra varie traversie esistenziali, ebbe modo di constatare la potenza redentrice della fede in Gesù, la cui verità, sola, libera. Episodio che poi ha trovato consacrazione in qualche modo nel motto del suo stemma Christus nos liberabit, Cristo ci libererà, scelta tutta sua, rivendicata orgogliosamente nel discorso a dispetto dell’araldica commissionata invece alla sua segretaria.
Sempre in tema di felicità, di fronte alla domanda “impertinente” di D. Senatore su quanto guadagni un vescovo, Moretti si è dichiarato “stracontento” anche per i suoi 1.300 euro erogati dal sostentamento clero, soprattutto nella decurtazione di quasi due terzi di quello che era invece lo stipendio al Vicariato di Roma, quando in veste di Vicegerente era annoverato nel personale della S. Sede con un trattamento economico, secondo sua ammissione, alquanto imbarazzante. E in una temperie di povertà ecclesiale, per lo più proclamata, quello di Moretti è un esempio di rapporto equilibrato col denaro, mezzo e non fine della vita umana.
Nicola Russomando
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