ARCHIVIOInchiesta pedofilia con zero prove: prima tutti dentro, poi tutti fuori

admin24/08/2013
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Tribunale Salerno bis

Aveva cinque anni quando tutto ebbe inizio. Per altri sette, fin quasi sull’orlo dei tredici, ha subito la brama perversa di suo padre, poi del fratello e perfino di una madre che non solo copriva le turpitudini casalinghe ma addirittura le incoraggiava. Il tutto in un contesto di complicità che andava dai vicini di casa alla docente scolastica, dal politico del paese al funzionario, trascinando nella vergogna all’incirca 20 persone.

 

Pedofilia collettiva, si direbbe, se solo fosse una fattispecie penale codificata. E se solo le indagini fossero riuscite a confermare tanta bestialità: ad osservarla per intero, questa storia sembra farsi terribile più per ciò che andava promettendo che non per quel ha mantenuto. Badate bene: non stiamo parlando di un’«ordinaria» vicenda al chiuso di mura domestiche ma di qualcosa che va oltre lo «standard». La traccia era imperniata su violenze organizzate per incrementare un mercato video pedopornografico dai gusti particolari, fatto di sadismo, sesso estremo, catene, pungiglioni, oggetti erotici vari. Roba da far accapponare la pelle se la si pensa riferita a bambini, e che in altri contesti si sarebbe già risolta con esecuzioni sommarie. Invece, sinora, di sommario sembra esserci stata solo il trattamento mediatico-giudiziario, perché a distanza di oltre tre anni non è rimasto nulla di ciò che era stato annunciato in pompa magna ai due poli del pianeta.

Siamo a Cetara piccolo borgo in costiera amalfitana, d’un tratto covo di pedofili sadici. La vittima si confida con una docente che subito «gira» la cosa ad un assistente sociale: il racconto è sconvolgente, preciso, con papà che addirittura lega la figlia con il filo da pesca per abusarne, il vicino che la riprende con la telecamera, il fratello che partecipa e chissà cos’altro. C’è poi un diario, la «prova schiacciante della colpevolezza» diranno in conferenza stampa gli inquirenti, accanto «agli altri elementi certi che inchiodano gli orchi». Quali siano, però, ancora oggi non si sa. E qui sta il problema nel problema, come vedremo.

La premessa fu sufficiente per far scattare la repressione della magistratura.

Un mattino di gennaio del 2010 la procura di Salerno (foto in alto, il tribunale) con l’allora capo Franco Roberti in persona, circondato dai carabinieri, annuncia di aver stroncato il turpe mercato. Seguiranno interviste e commenti. Le «prove sono acquisite» contro i tre arrestati (padre, madre e fratello, cui si aggiungerà poi una quarta persona), anche grazie al «diario della ragazzina», ai «computer, hard disk, pen drive, cellulari e video camere sequestrati», alle «intercettazioni telefoniche ed ambientali» e soprattutto ai «racconti della vittima raccolti da un giudice onorario del tribunale dei minori». Si tratterebbe di una sociologa i cui pareri avrebbero funto da pilastro dell’inchiesta. Nel corso delle indagini i due pm (Giusti e Cassaniello) con l’imprimatur dell’oggi capo della Dna, consegnarono alla ragazzina una cimice per -si disse- tutelarla meglio e rafforzare le prove. Tant’è che una mattina il paesino venne clamorosamente «circondato» dai carabinieri per l’irruzione in casa: purtroppo avevano scambiato l’audio di un film alla tv con una violenza in atto sulla bambina.

Al di là delle buone intenzioni, fu il presagio che annunciava l’attualità: a meno di sviluppi recenti ancora segreti, è tutto bloccato, nessun indizio oltre le suggestioni iniziali, di prove non se ne parlerebbe (altrimenti sarebbero già tutti a processo) materiale audio e video restituito perché ininfluente, l’intero archivio di un fotografo professionista, trascinato pure lui nella melma, scandagliato per 6 mesi senza frutto. Perfino nel diario pare ci fosse scritto altro: a quell’età le idee sono confuse, bisogna andarci cauti. Nel frattempo un’indagata voleva suicidarsi per la tipica gogna di questi anni disinvolti.

Insomma, un disastro: che oggi si raddoppia dal momento che i termini di indagine sono scaduti da più di un anno e mezzo (oltre i due previsti per questi reati) ma dalla procura non v’è cenno, né di richiesta di archiviazione, che a questo punto pare obbligata, né di rinvio a giudizio, che preluderebbe ad un dibattimento lungo, costoso e inutile. Come tanti altri. C’è chi spiega il letargo con l’idea che il tempo raffreddi animi ed attenzione, lenendo ogni dolore: già, soprattutto quello di chi non lo prova. 

Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 24 agosto 2013)

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