Chissà di chi sarà la responsabilità dell’uscita anticipata dal carcere di altri due esponenti di spicco della criminalità organizzata in Campania: dei toner delle stampanti esauriti, del personale ausiliario che manca, dell’affanno quotidiano dei cancellieri, delle carta igienica che manco si trova più nelle toilette degli uffici giudiziari, delle astuzie degli avvocati che ne inventano di ogni colore, degli scioperi degli uscieri, delle leggi ad personam?
Non si sa, le responsabilità -se tali possano esser definite- in Italia incarnano concetti quasi eterei, impalpabili, specie se nel discorso c’entrano a vario titolo i magistrati. E comunque è sempre colpa/responsabilità di qualcun altro.
Raccontiamo, dunque, la storia di Antonio Scognamillo e Aniello Ruocco, rimessi in libertà pochi giorni fa dalla Corte d’Appello di Napoli per decorrenza dei termini di legge.
Si tratta – a quanto ha raccontato domenica scorsa Il Giornale di Napoli- di due esponenti di spicco della camorra campana: il primo è considerato personaggio di rilievo della mala di Soccavo, nonché attuale reggente del clan Grimaldi; il secondo è invece ritenuto uno dei boss a capo di un’omonima cosca (i Ruocco) nell’area del Nolano. Antonio Scognamillo doveva scontare quattro anni per estorsione aggravata dal metodo mafioso (il famoso art. 7) mentre Aniello Ruocco doveva addirittura farsene quattordici di anni in quanto organico alla camorra più altri reati collegati.
E che ti va a succedere nel frattempo? Che gli avvocati difensori (Abet e Galloro per Scognamillo, Abet e Bizzarro per Ruocco) scavano tra le montagne di carta che normalmente affollano questi procedimenti e si accorgono che c’è qualcosa che non fila come dovrebbe. Stando alla normativa da osservare, naturalmente.
Preparano così un’istanza di scarcerazione ai giudici che, a quel punto, esaminate le pratiche relative, devono giocoforza liberare i due camorristi. Antonio Scognamillo, in pratica, era in carcere a scontare la condanna di primo grado e doveva restarci altri quattro anni: senonché tra il giudizio iniziale e quello d’Appello trascorre un periodo eccessivo (i cosiddetti termini di fase) durante il quale, per ragioni che al momento sfuggono, non è stato possibile celebrare il nuovo giudizio. Il che, ovviamente, lede le garanzie del cittadino (seppur prigioniero e seppur “blasonato” in quel modo) obbligando i giudici della Corte d’Appello a decretarne la scarcerazione immediata rimettendolo in libertà.
Il caso di Aniello Ruocco, volendo, è anche più allarmante. Il personaggio è considerato di alto livello criminale, ai vertici dell’organizzazione mafiosa che governa una precisa area del territorio di Nola, una delle zone più ricche e con maggiori insediamenti industriali della regione: al punto che la magistratura aveva anche disposto per lui il divieto di dimora in Campania.
Era in carcere già da sei anni e doveva farsene altri quattordici. Sul suo capo una condanna per associazione camorristica ed altri reati collegati: il punto è che, non essendo stata riconosciuta la continuazione tra un reato ed un altro, i termini di custodia cautelare iniziavano a decorrere autonomamente, cioè in rapporto ad ogni singolo reato contestato.
Pertanto, in attesa di una condanna definitiva che non è più arrivata e dopo sei anni già trascorsi dietro le sbarre, ad un certo punto anche per il boss nolano si spalancano le porte del carcere.
Sia l’uno che l’altro sono, allo stato, liberi cittadini.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 12 giugno 2013)