“Negli uomini della nostra epoca, e non solo tra i filosofi, si sono già manifestate concezioni di una certa diffidenza disseminata dappertutto e di nessuna fiducia per le grandi possibilità di conoscenza dell’uomo”: con queste parole Giovanni Paolo II nel 1998 dava l’incipit ad una delle sue encicliche più importanti, Fides et ratio, sul rapporto tra fede e ragione. Ed è stato anche questo l’incipit da cui ha preso le mosse la conferenza di Lucio Romano, ordinario di Ginecologia alla Federico II di Napoli e vice presidente del Senato, eletto nelle ultime elezioni tra le file di Scelta civica.
L’incontro (foto) sul tema La fede come sfida educativa, si è tenuto alla Badia di Cava il 25 maggio, organizzato dall’Associazione degli ex alunni e dall’ex allievo Giuseppe Battimelli, presidente provinciale dell’Associazione dei Medici cattolici. Al centro della riflessione del prof. Romano lo scetticismo contemporaneo circa le possibilità conoscitive della ragione stessa, sin da quando il “pensiero debole” ha imposto il dato di conoscenza come espressione relativa del momento storico. Non una conoscenza assoluta, ma una relativa, provvisoria nell’esperienza e nella storia.
E’ quello che lamentava l’enciclica, laddove invitava a recuperare le “due ali” della conoscenza, la fede e la ragione. Questione da sempre presente nel dibattito filosofico, ma che Romano ha ricondotto al tema della “laicità metodologica”, che si oppone a quella “contenutistica”, per cui il dato dell’esperienza della prima non esclude una dimensione trascendente, oltre l’esperienza dei sensi. Né riduce la conoscenza delle cose a dimensione funzionale per cui quanto esiste è in ragione della sua utilità, non della sua essenza. Tradotto il discorso in termini pratici si comprende che il valore della persona, in un approccio di tipo etico, è un dato in sé non condizionato dalla funzione o dall’utilità. E le conseguenze su temi come aborto ed eutanasia diventano di palmare evidenza. Nella logica di una conoscenza che non esclude la dimensione altra della fede, s’impone il “cognitivista etico”, che concepisce la dimensione dell’esperienza non solo in chiave orizzontale, nel semplice rispetto dell’altrui individualità (la mia libertà termina laddove inizia quella degli altri), ma in senso orizzontale, sotto il segno della reciprocità del rapporto interpersonale. E, significativamente, Lucio Romano ha citato il filosofo neopagano Salvatore Natoli, che vede nel rapporto interpersonale tra gli uomini il fondamento stesso dell’esistenza dell’individuo (esisto in rapporto all’esistenza degli altri).
La sintesi di questo discorso, per cui la filosofia è chiamata a dare risposte di conoscenza, Romano l’ha cercata nella favola pagana di Igino sulla creazione dell’uomo, riproposta dal padre dell’esistenzialismo contemporaneo Heidegger in Essere e Tempo. Racconta il mitografo antico che ci fu disputa tra gli dei per l’attribuzione dell’uomo. La dea Cura aveva plasmato l’uomo dal fango, chiedendo a Giove di dargli un’anima. Sorge la controversia su come chiamarlo e, si sa, imporre il nome, è segno di dominio. La terra, Humus, lo reclama perché gli ha dato il corpo, Giove per l’anima. Saturno è chiamato a dirimere la controversia. Il responso è che era giusto che homo, tratto da Humus, ne ricevesse il nome e dopo morto tornasse alla terra, come pure che lo spirito si liberasse nell’aria tornando a Giove, ma, finchè fosse in vita, doveva essere affidato a Cura che lo aveva tratto dal fango.
La traduzione simbolica del mito risulta quanto mai attuale se solo si pensa a tutte le questioni intorno al tema della vita dal suo inizio alla sua fine, alla sua dignità e alla sua tutela. La “cura” della vita diventa materia che interpella tutti in una dimensione della conoscenza che non può limitarsi a risposte parziali, ma deve presupporre la dimensione etica. E visto che anche nel dibattito politico le questioni etiche diventano elemento di contrapposizione in base alle due diverse concezioni della laicità, si può osare di andare oltre “quel falso pudore che si accontenta di verità parziali e momentanee, che non tende a porre domande radicali sul senso e sull’ultimo fondamento della vita umana, nei singoli uomini e nella stessa società”, come Fides et ratio ricorda.
E in una società che, pur fabbricando la vita, ha perduto il senso della vita, come scriveva Bernanos già negli anni ’20 del secolo scorso, è segno che il dibattito è tutt’altro che inattuale, come anche il convegno della Badia di Cava testimonia.
Nicola Russomando
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