Prima un Totò le mokò, poi direttamente un turco napoletano. Precisamente: un palestinese napoletano. Tenere a mente queste due date: 13 luglio 2012 e 27 aprile 2013, i giorni in cui Napoli ha caricato negli elenchi anagrafici onorari Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso dalla mafia, e Mahmoud Abbas, detto Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese.
Due cittadini onorari per scelta politica e per ragioni diverse tra loro, ma tutte e due conseguenza di quell’immaginario culturale sostanzialmente fuori dalla realtà in cui è immerso il primo cittadino, quel Luigi De Magistris sempre in bilico tra giustizialismo, idealizzato e praticato, e terzomondismo sinistroide stile universitari fuori corso ed indignati permanenti. Decisioni ad alto tasso simbolico -com’è giusto ed anche ovvio- dalle quali discendono critiche e contrapposizioni. E pure tanta ironia, non foss’altro perché siamo nella capitale mondiale del disincanto.
La cerimonia di consegna di pergamena, medaglia d’oro e di un olio su tela di fine ‘700 al presidente palestinese s’era chiusa da pochi minuti quando a non tanti metri di distanza nel manto stradale si apre l’ennesima voragine. Più o meno nella stessa area del crollo della palazzina, di via Chiaia. Uno dei tanti e noti fossi sparsi per la città che, questi sì, fanno tanto Palestina: sotto la città ce ne sono almeno altre tre stratificate, cunicoli e labirinti segnati da secoli di presenza umana. E pure disumana: un po’ come quei tunnel che ai confini con l’Egitto o col Libano i “fratelli” palestinesi usano per ogni contrabbando, armi e droga in primis.
Certo a Napoli è andata di lusso perché a giudicare dall’attivismo del sindaco su questi temi, è già tanto che l’onore non l’abbia tributato ad Ismail Hanyeh o Khaled Meshal, sanguinari leader di Hamas, non proprio amici dello stesso Abu Mazen. Solo pochi mesi fa De Magistris trascinò Napoli in quella grande patacca politico-culturale di Freedom Flotilla, la nave «umanitaria» decisa a violare l’embargo di Gaza, un natante guidato dai soliti gruppetti di occidentali annoiati. Fu organizzata una colletta in consiglio comunale (la stessa cosa, per buttarla un po’ in retorica, non si è mai registrata per napoletani bisognosi, e ce ne sono a iosa), il sindaco si recò sulla banchina per porgere il proprio istituzionale saluto, flash, telecamere e taccuini immortalarono l’umanitario gesto. Che a Gaza, nei medesimi frangenti, stessero assemblando razzi per far fuori qualche altro ebreo, non era nei pensieri di una maggioranza pur sempre appoggiata esplicitamente dai Carc (Comitati di appoggio alla resistenza comunista!), da centri sociali e vice-guidata da un esponente di peso di ciò che residua di Rifondazione comunista, l’ex senatore Tommaso Sodano.
Certo, Abu Mazen è il leader di Fatah, teoricamente non c’entra più nulla con Hamas, lui ieri al Maschio Angioino s’è limitato a dire che «Napoli e l’Italia sono amici in prima linea nel processo di pace con Israele, uno stato che dovrebbe semplicemente abbandonare territori non suoi, occupati con la forza, come la Cisgiordania, Gerusalemme est, il Golan». Un modo come un altro per dire agli israeliani di esser così gentili da farsi squartare e, possibilmente, sparire dalle faccia della terra. Applausi scroscianti con sindaco e vicesindaco annuenti col capo dinanzi a parole tecnicamente irricevibili. Ma Napoli e la Palestina ora sono più vicine, s’è detto ieri, ribadendo l’equilibrismo dell’esser vicini pure alla comunità ebraica. «La città di Napoli riconosce lo stato della Palestina» ha ripetuto De Magistris, magari immaginandosi replica di Murat durante la sua tragica repubblica del 1799. A giudicare dalla frequenza di botti di pistola e kalashnikov di alcune aree della città l’accostamento verrebbe naturale, così come il caos simil-casbah moltiplicato esponenzialmente dai pazzotici dispositivi anti traffico. Se è questo che voleva il rivoluzionario di Posillipo, diciamo che la missione, in un certo senso, è compiuta.
Invece, il guaio è che De Magistris pensa veramente che i palestinesi siano vittime della prepotenza israeliana e non, invece, dei loro stessi leader politici. Un po’ come i napoletani che con il giacobinismo murattiano, le manette facili, l’altermondismo militante nulla hanno a che vedere: qui viene prima San Gennaro, poi tutto il resto.
In fondo Abu Mazen ha soltanto scritto una tesi di laurea sulla collaborazione tra sionisti e nazisti per l’eliminazione del popolo ebraico, è solo colui che procurò il danaro per la strage delle Olimpiadi a Monaco ’72. Altri tempi. E Napoli, in fondo, è soltanto l’unica città italiana ad aver cacciato in quattro giorni i tedeschi contando unicamente sulle sue forze. Appunto.
Peppe Rinaldi (dal quotidiano “Libero” del 28 aprile 2013)